titolo 1° - - OGGETTO E CAMPO DI APPLICAZIONE
Art. 1 Definizione
Il Codice di
Deontologia Medica
contiene principi e regole che il medico-chirurgo e
l'odontoiatra, iscritti agli albi professionali dell'Ordine dei
Medici
Chirurghi e degli Odontoiatri, di
seguito indicati
con il termine di medico,
devono osservare nell'esercizio della professione.
Il comportamento del medico,
anche al di fuori
dell'esercizio della professione, deve essere consono
al decoro e alla dignità
della stessa.
Il medico è
tenuto alla conoscenza delle norme del presente Codice, la
cui ignoranza non lo esime dalla responsabilità disciplinare.
Commento:
Il nuovo codice di
deontologia medica, all’art. 1, si
limita a stabilire, con chiarezza, quali siano i suoi contenuti e i suoi ambiti
di applicazione, senza preoccuparsi di
elaborare una definizione della deontologia medica.
A questo riguardo è interessante notare come nell’articolo sia
subito chiarito il concetto che le norme deontologiche non riguardano soltanto
la vita professionale del medico, ma
incidono su tutta la sfera comportamentale del professionista.
Il termine di deontologia deriva dai
termini greci "to deon" : "ciò che deve essere e che si deve fare" e "logos"
: "discorso, parola, scienza
".
Nella storia della filosofia la parola deontologia è entrata nell’uso comune da
quando il Bentham diede
alla sua "Science of morality"
apparsa nel 1834 il titolo di "Deontology".
In sede di introduzione a questo
commento è necessario evidenziare la consapevole scelta della Federazione di "difendere
e rafforzare" il valore e l’importanza della deontologia professionale. Si
è inteso riaffermare con energia l’autonomia della deontologia anche rispetto
alla continua e incessante opera di
"legificazione" di tutti
gli aspetti in cui si svolge l’attività dell’uomo. La norma giuridica,
infatti, non può pretendere, senza tradire i
suoi peculiari aspetti di
generalità e di astrattezza, di
regolamentare l’universalità dei comportamenti umani soprattutto in campi
particolarmente delicati come quelli relativi allo svolgimento dell’attività
professionale.
La deontologia medica
rappresenta, tradizionalmente,
l’insieme delle norme riguardanti i doveri del medico nei
suoi rapporti con le autorità , con i cittadini e
con i colleghi. Caratteristica primaria di questo
insieme di principi e regole è la loro "extragiuridicità":
si tratta di norme di
condotta che nascono spontaneamente in seno al gruppo professionale e che sono
volontariamente osservate come se fossero norme giuridiche dai
componenti del gruppo professionale stesso.
In campo medico, in particolare, il
comportamento deontologico si esprime nel rispetto della dignità
professionale. Questo si sostanzia nel presupposto che la scelta della medicina
come professione sia – o almeno tenda ad essere – vocazionale e che fondamenti
ne siano l’indipendenza intellettuale e
la libertà scientifica.
Questi valori sono comuni a tutte le professioni, ma trovano la loro più alta
espressione nella medicina
cui prioritariamente è affidata la tutela dello stato di salute
dell’uomo e il suo benessere psichico e fisico.
I valori basilari del rispetto della vita e della dignità
della persona devono essere sempre di guida
al medico, la cui opera ha per
fine l’interesse del paziente, da perseguire nella rigorosa adesione ai canoni
della deontologia ippocratica, cioè
ai principi della beneficialità e della non maleficità.
E’ ancora attuale, quindi,
l’antichissimo binomio della scienza e coscienza. L’atto medico ha,
da un punto di vista deontologico, una
duplice giustificazione. Da un lato la scienza del medico, cioè il suo sapere offerto al paziente e corretto dalla
coscienza, intesa quale uso consapevole di questo
sapere nell’interesse esclusivo del malato, dall’altro la volontà, liberamente
espressa e non delegabile, dell’individuo
che al medico si affida.
Se, come detto - la deontologia medica si
sostanzia nel rispetto della dignità e
del decoro della professione garantite dall’indipendenza
professionale e dalla libertà scientifica - ecco che viene a delinearsi
in modo netto ed esauriente il significato vero dell’Ordine
professionale inteso come organo che deve tutelare i principi costitutivi della
dignità della professione.
Art. 2 Potestà disciplinari - Sanzioni
L'inosservanza dei precetti,
degli obblighi e dei divieti
fissati dal presente Codice di
Deontologia Medica e
ogni azione od omissione, comunque disdicevoli
al decoro o al corretto esercizio della professione, sono punibili con le
sanzioni disciplinari
previste dalla legge.
Le sanzioni devono
essere adeguate alla gravità degli atti.
Commento:
L’art. 2 è modificato
rispetto alla precedente versione prima di tutto
per quanto concerne il titolo, che si riferisce direttamente
alla potestà disciplinare e alle
relative sanzioni.
Si è voluto sottolineare come spetti all’Ordine
professionale garantire il rispetto dei principi deontologici attraverso
l’eventuale irrogazione di
specifiche sanzioni disciplinari
nei confronti degli iscritti.
La dottrina ha più volte evidenziato il carattere di discrezionalità
del potere disciplinare degli Ordini sui
propri iscritti.
E' stato affermato (Lega) che se è vero che il potere disciplinare
è attribuito all'Ordine
professionale per il raggiungimento di
determinate finalità di ordine
pubblico, qualora si riscontrasse che tali finalità siano contraddette dai
propri iscritti, l'Ordine
stesso verrebbe meno ai propri doveri istituzionali se non esercitasse quei
poteri che tali finalità presidiano.
Ricorrendo particolari fattispecie di minore
importanza non può, tuttavia, negarsi un certo margine discrezionale
sulla opportunità di
procedere disciplinarmente. Quando
però vi siano prove certe di
comportamenti obiettivamente antideontologici, l'Ordine è
chiamato ad attivarsi per dare contenuto e sostanza alla sua potestà disciplinare.
Per quanto concerne le professioni sanitarie, il potere disciplinare
è attribuito agli Ordini e
Collegi dall'art. 3, lett. f) del DLCPS 13 settembre 1946, n. 233
.Le sanzioni disciplinari e il relativo
procedimento sono invece stabilite negli artt.
38 - 52 del DPR 5 aprile 1950, n. 221.
Le sanzioni disciplinari sono: l'avvertimento
" che consiste nel diffidare
il colpevole a non ricadere nella mancanza commessa"; la censura
"che è una dichiarazione
di biasimo per la mancanza
commessa"; la sospensione dall'esercizio della professione per un
periodo di tempo che va da uno a
sei mesi; la radiazione
dall'Albo per le colpe di estrema gravità.
Il già citato art. 38 del DPR 5 aprile 1950, n. 221, prescrive che il procedimento disciplinare
è promosso dall'Ordine
d'ufficio o su richiesta del Ministro della Sanità o
del procuratore della Repubblica.
Giudice d'appello contro le
decisioni disciplinari dell'Ordine è la
Commissione Centrale per gli esercenti le professioni sanitarie. E' ammesso,
infine, il ricorso alle Sezioni unite della Corte di
Cassazione avverso le decisioni della Commissione Centrale.
Nel testo del nuovo codice è stato aggiunto un secondo comma riguardante la necessità
della adeguatezza delle sanzioni disciplinari
da irrogare alla gravità degli atti. A questo proposito deve sottolinearsi
una innovazione della legge 175/92 discendente
dall’entrata in vigore della recente normativa 26 febbraio 1999 n. 42
"Disposizioni in materia di
professioni sanitarie" che ha modificato
l’art.3 comma 1 e l’art.5 comma 4 della legge citata 175/92, che prevedevano
l’irrogazione della sanzione e della sospensione da 2 a 6 mesi per coloro che
svolgevano a titolo individuale
o come responsabili di
strutture sanitarie, pubblicità sanitaria nelle forme consentite senza
autorizzazione del sindaco o della Regione. In questi casi le sanzioni
irrogabili diventano quelle della
censura o della sospensione dall’esercizio della professione sanitaria ai sensi
dell’art.40 del DPR 5 aprile 1950, n.221. Occorre subito sottolineare
che rimangono ferme, invece, le sanzioni previste dalla legge 175/92 in caso di
pubblicità contenente indicazioni
false o svolte attraverso strumenti non disciplinati
della legge.
Con queste modifiche la legge 26
febbraio 1999 n. 42, ha inteso superare la rigidità
dell’irrogazione della sospensione da due a sei mesi che in precedenza doveva
essere applicata al professionista che non era in regola con l’autorizzazione
prevista dalla legge 175/92. In pratica l’Ordine
riacquista in questo specifico settore la propria discrezionalità
amministrativa per quanto concerne la valutazione della colpa disciplinare
del professionista, potendo modulare la sanzione eventualmente da infliggere in
un ambito che va dalla censura alla sospensione dall’esercizio professionale
senza rigida predeterminazione della durata della sospensione stessa.
Viene così ad essere superato un inconveniente spesso lamentato dai
rappresentanti degli Ordini che si "vedevano costretti" ad irrogare sanzioni
indubbiamente gravi anche per colpe disciplinari
che, in alcuni casi, non sembravano essere tali da giustificarle.
titolo 2° - DOVERI GENERALI DEL MEDICO
CAPO I - INDIPENDENZA E DIGNITÀ'
DELLA PROFESSIONE
Art. 3 Doveri del medico
Dovere del medico è la
tutela della vita, della salute fisica e psichica dell'Uomo e il sollievo dalla
sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità
della persona umana, senza discriminazioni
di età, di sesso,
di razza,
di
religione, di
nazionalità, di condizione
sociale, di
ideologia, in tempo di pace
come in tempo di
guerra, quali che siano le condizioni
istituzionali o sociali nelle quali opera.
La salute è intesa nell'accezione più ampia del termine, come condizione cioè di
benessere fisico e psichico della persona .
Commento:
La scelta di
sostituire al termine "compito" quello, decisamente
più incisivo, di "dovere"
nell’ambito delle affermazioni a carattere quasi universale, che l’articolo
stesso contiene, è stata unanime, voluta al fine di
puntualizzare il rapporto imprescindibile
che deve esistere tra il medico e la
persona.
Questo articolo, in cui vengono sottolineati valori
fondamentali e principi etici universali, vuole rivestire per il professionista
una sorta di guida in riferimento a
situazioni in cui l’affermazione di una
propria regola comportamentale può arrivare a porsi in diretto
contrasto con la normativa statale vigente.
Il secondo comma dell’articolo riconferma l’interpretazione, ormai accettata
ampiamente, ovvero che il concetto di salute
è da intendersi in senso estensivo, con riferimento, quindi, al
benessere fisico e psichico della persona.
Si può correttamente sostenere che questo articolo
costituisce un'applicazione dallo specifico punto di vista
della professione medica
degli articoli 32 e 3 della Costituzione.
Come è noto, infatti, l'art. 32 della Cost. garantisce il c.d. "diritto
alla salute" anche se tecnicamente è più corretto parlare di "diritto
alla tutela della salute".
L'esercizio medico, attraverso la
propria tradizione millenaria,
costituisce il primo e più naturale supporto per difendere
la salute come fondamentale diritto
dell'individuo e interesse della
collettività.
Il riferimento all'art. 3 della Costituzione (che prevede il c.d. principio di uguaglianza)
viene invece spontaneo considerando che l'articolo del codice
deontologico in commento utilizza quasi le stesse parole del legislatore
costituzionale prevedendo che il medico deve
assicurare la difesa e il rispetto della
vita, della salute e il sollievo della sofferenza "senza discriminazioni
di età, di sesso,
di razza, di
religione, di nazionalità, di condizione
sociale, di ideologia in tempo di pace
come di guerra".
Art. 4 Libertà e indipendenza della professione
L'esercizio della medicina è
fondato sulla libertà e sull'indipendenza
della professione.
Commento:
La stringatezza della nuova
versione dell’articolo 4 corrisponde alla volontà di dare
assoluta rilevanza al concetto di
libertà e di indipendenza
come presupposto fondamentale per l’esercizio della medicina.
La modifica del precedente
testo si giustifica con lo scopo di
evitare concetti retorici e ridondanti rispetto alla sintesi ed efficacia del
testo attuale.
La libertà e l'indipendenza
del medico costituiscono due
presupposti indispensabili per il
corretto svolgimento dell'esercizio professionale.
A ben vedere l'istituzione degli Ordini
professionali ha avuto, fra l'altro, proprio lo scopo di creare
uno strumento per garantire questi diritti
da eventuali interferenze esterne (vedi a
questo proposito, per quanto riguarda la professione medica,
l'art. 3 lett. b) del DLCPS 13 settembre 1946, n. 233, che impone la vigilanza
per la difesa dell’indipendenza
della professione).
La difesa della libertà e
dell'indipendenza del medico ha
assunto ancora più rilevanza considerando che, ormai da tempo,
l'esercizio professionale può essere svolto anche in regime di dipendenza
(vd. art. 47 legge 833/78) o
di "convenzionamento".
Numerosi problemi sono sorti per tutelare l'indipendenza
e la libertà dei medici che
vengono a trovarsi incardinati in
un sistema improntato a criteri di
supremazia gerarchica.
E' stato però chiarito che anche in queste situazioni, pur nel rispetto dei
vincoli propri del lavoro subordinato
(si pensi all'orario di
lavoro, alle turnazioni, ma anche al diritto
alle ferie), devono rimanere inalterate, per la parte specifica relativa all'attività
professionale, la libertà e l'indipendenza
intellettuale del medico.
Art. 5 Esercizio dell'attività professionale
Il medico
nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche e
ispirarsi ai valori etici fondamentali, assumendo come principio il rispetto
della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità
della persona; non deve soggiacere a interessi,
imposizioni e suggestioni di
qualsiasi natura.
Il medico deve
denunciare all'Ordine ogni
iniziativa tendente a imporgli comportamenti non
conformi alla deontologia professionale, da qualunque parte essa provenga.
Commento:
La lettura di questo
articolo, peraltro sostanzialmente immutato, assume particolare
rilevanza per quanto riguarda lo specifico tema della necessità di
attenersi strettamente alle conoscenze scientifiche. La recente e per molti
aspetti dolorosa vicenda relativa alle polemiche
violente vissute per quanto riguarda la terapia e la lotta ai tumori, ha
indotto la Federazione e i suoi rappresentanti a far valere questo principio
anche a costo di vedersi accusare di difesa
miope della corporazione professionale. I successivi eventi hanno in pratica dimostrato
la giustezza sostanziale della posizione assunta dall'Ordine
professionale in relazione alla necessità di
ancorarsi a saldi principi scientifici
per tutto quanto riguarda l’esercizio della medicina.
Questo articolo evidenzia i valori di
riferimento dell’esercizio medico: si
richiama, infatti, al binomio scienza e coscienza da
intendersi come riferimento del corretto comportamento etico.
Sono questi due principi che si sostanziano e si limitano l’un
l’altro laddove la libertà del professionista costituisce una garanzia per il
cittadino e la libertà di cura
riconosciuta alla persona deve essere ancorata ad elementi scientificamente validati.
Il richiamo ai valori etici cui è necessario ispirarsi intende evidenziare come
il concetto di attività sanitaria non sia da intendersi come mera
prestazione tecnica, ma come intervento complesso ispirato costantemente a
valori etici fondamentali.
L'ultimo comma dell'art. 5 stabilisce la necessità per il medico di
ricorrere all'Ordine
contro qualsiasi pressione, da chiunque esercitata, tendente a condizionare
il suo comportamento al di fuori
della deontologia professionale. E' indubbio, infatti, che il progredire dei
tempi porti sempre più spesso i medici a
dover sopportare pressioni e condizionamenti
derivanti ad esempio dal mondo dei mass media,
tendenti a "utilizzare" la figura del medico per
scopi non deontologici.
E' ovvio, peraltro, che la norma si riferisce anche alle pressioni di
carattere economico da cui il medico non
deve farsi condizionare al punto di porre
in essere comportamenti contrari all'etica professionale.
Art. 6 Limiti dell'attività professionale
In nessun caso il medico deve
abusare del suo status professionale.
Il medico che
riveste cariche pubbliche non può avvalersene a scopo di
vantaggio professionale.
Commento:
Nell’attuale testo questo articolo esprime
l’obbligo morale per il medico di non
abusare del suo status professionale.
Nella precedente stesura si faceva, invece, riferimento alla condizione
professionale. Il motivo di questa
modifica è quello di
ampliare l’ambito di applicazione della norma in relazione a tutti gli aspetti
della professione medica
anche al di fuori dell’esercizio
professionale.
Il primo comma dell’art. 6 riveste carattere di
generalità ed esprime l’obbligo morale per il medico di non
avvalersi del proprio prestigio e della propria reputazione professionale per
ottenere illeciti vantaggi. Il riferimento non è solo relativo a eventuali, ingiustificati guadagni economici ma comporta
anche il dovere del medico di
"non sfruttare" il proprio status sociale per suggestionare i
pazienti e ottenere utilità di
qualsiasi genere.
Il secondo comma costituisce una specifica applicazione del principio del primo
comma, facendo riferimento alle cariche pubbliche che il medico può
essere chiamato a ricoprire. Come è noto la tradizionale
figura del medico che svolge solo la
libera professione è purtroppo residuale in quanto l’attività medica si
svolge ora, prevalentemente, in rapporto di dipendenza
e di convenzionamento.
La norma deontologica vuole evitare anche il semplice sospetto che il medico,
chiamato ad assumere cariche di
rilievo pubblico, di
carattere politico o amministrativo, se ne avvantaggi
per favorire la propria attività professionale o comunque interessi di
carattere personale. Per quanto riguarda la materia strettamente elettorale è necessario citare la legge 23 aprile 1981, n.
154, e successive modificazioni
che, riferendosi ai medici dipendenti
e convenzionati delle ASL, detta disposizioni
in materia di ineleggibilità ed
incompatibilità alle cariche di
consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e alle cariche
negli organi delle ASL. Anche in questo caso, pur nei diversi
ambiti e competenze, vi è un sostanziale riscontro fra la normativa
deontologica e quella propria della legge ordinaria.
CAPO II - PRESTAZIONI
D'URGENZA
Art. 7 Obbligo di intervento
Il medico, indipendentemente
dalla sua abituale attività, non può mai rifiutarsi di
prestare soccorso o cure d'urgenza e deve tempestivamente attivarsi per
assicurare ogni specifica e adeguata assistenza.
Commento:
L’attuale articolato è stato
reso più snello rispetto alla versione originaria del codice del
1995, ma sostanzialmente si aggancia al già richiamato principio generale di
solidarietà che diventa
per il medico vero e proprio
obbligo in considerazione del richiamo che l’attività professionale ha con il
principio costituzionalmente protetto di tutela
della salute.
Questo articolo del codice
deontologico costituisce un'applicazione particolarmente rigorosa, in riferimento alla figura del medico,
della norma di cui all'art. 593 del codice
penale. Tale norma riferendosi alla generalità delle persone è, ovviamente,
meno tassativa e prevede, in buona sostanza, l'obbligo di
attivarsi per "prestare assistenza o dare avviso immediato
alle autorità". La differenza
risiede nel fatto che l'obbligo di
attivarsi per un "cittadino
normale" scatta quando si trovi "la persona di un
minore abbandonato o
il corpo di un individuo
ferito o ammalato e quindi
incapace di provvedere
a se stesso".
L'articolo del codice
deontologico prevede, invece, che il medico,
comunque, avvertito della necessità della sua opera, non possa rifiutarsi di
intervenire.
E' opportuno, peraltro, ribadire che, a
prescindere dagli aspetti penalistici, l'obbligo
deontologico costituisce sempre una sufficiente motivazione per il medico a
prestare la propria assistenza quando se ne riscontri la necessità.
A livello normativo va ricordata la legge 5 giugno 1990, n. 135, che ha
introdotto il dovere di
prestare la necessaria assistenza nei confronti dei soggetti affetti da
sindrome di immunodeficienza acquisita.
Dobbiamo, comunque, evidenziare che la stessa
giurisprudenza, per quanto riguarda il reato penale, ha escluso la sussistenza
dell'obbligo di intervento del medico in
alcuni casi specifici:
1 - quando l'assistenza necessaria sia già stata assicurata al malato da
parte di un altro medico;
2 - quando ci si trovi di fronte
a situazioni che in diritto
si chiamano di "forza
maggiore". Si pensi al caso del medico che,
sebbene avvertito di un
caso urgente non possa, ragionevolmente, intervenire perchè
gravemente ammalato o perchè la strada da cui
dovrebbe transitare risulta ostruita da una frana. Si
tratta di un'applicazione del tradizionale
principio del diritto
romano "nemo ad impossibilia
tenetur".
Art. 8 Calamità
Il medico, in
caso di
catastrofe, di
calamità o di epidemia, deve mettersi a disposizione
dell'Autorità competente.
Commento:
Il progredire
delle conoscenze sociali sia a livello individuale
che istituzionale ha indotto il legislatore deontologico a dedicare
uno specifico articolo ai compiti assistenziali cui il
medico non può sottrarsi in caso di eventi
che abbiano rilevanza collettiva .
La stessa normativa vigente attribuisce specifici compiti ai medici in
questi frangenti, ma è di tutta
evidenza che le motivazioni etico-deontologiche sono
le prime cui il medico deve
rispondere in caso di eventi
eccezionali ed emergenze sanitarie.
Il medico, infatti, proprio per
la sua qualificazione professionale deve mettersi a disposizione
delle autorità costituite quando la situazione richieda
interventi urgenti in presenza di
emergenze particolarmente gravi.
Esistono, peraltro, anche gli artt. 256 e 257 del
TULLSS che prevedono rispettivamente "l'obbligo dei medici di
prestare la propria opera per i servizi di assistenza
e profilassi, secondo le disposizioni
dell'autorità sanitaria, nei comuni di
residenza, in caso di
epidemia o di pericolo di
epidemia nonchè l'obbligo di
prestare la propria opera per prevenire o combattere la diffusione
di malattie infettive negli altri
comuni ai quali siano stati destinati dall'autorità sanitaria".
Si tratta di un vero e proprio
obbligo giuridico di
prestazione di attività indipendentemente
dalla instaurazione di
qualsiasi rapporto di
carattere continuativo.
Anche in questo caso è utile ricordare, che, comunque,
l'obbligo deontologico sussiste, nella fattispecie, anche in mancanza di
precise disposizioni dell'autorità
competente: si pensi ai casi di
calamità gravissime che provocano l'interruzione di
qualsiasi forma di
comunicazione.
CAPO III - OBBLIGHI PECULIARI
DEL MEDICO
Art. 9 Segreto professionale
-Il medico deve
mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o che può conoscere in
ragione della sua professione; deve, altresì, conservare il massimo riserbo
sulle prestazioni professionali effettuate o programmate, nel rispetto dei
principi che garantiscano la tutela della riservatezza.
La rivelazione assume particolare gravità quando ne derivi profitto, proprio
o altrui, o nocumento della persona o di altri.
Costituiscono giusta causa di rivelazione,
oltre alle inderogabili ottemperanze a specifiche norme legislative (referti,
denunce, notifiche e certificazioni obbligatorie):
a) - la richiesta o l’autorizzazione da parte
della persona assistita o del suo legale rappresentante, previa specifica informazione sulle conseguenze
o sull’opportunità o meno della rivelazione stessa;
b) - l’urgenza di
salvaguardare la vita o la salute dell’interessato o di terzi,
nel caso in cui l'interessato stesso non sia in grado di
prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire
o per incapacità di
intendere e di
volere;
c)- l'urgenza di
salvaguardare la vita o la salute di terzi,
anche nel caso di diniego dell'interessato, ma previa autorizzazione del
Garante per la protezione dei dati personali.
La morte del paziente non esime
il medico
dall’obbligo del segreto.
Il medico non
deve rendere al Giudice
testimonianza su ciò che gli è stato confidato o è pervenuto a sua conoscenza
nell’esercizio della professione.
La cancellazione dall'albo non esime moralmente il medico
dagli obblighi del presente articolo.
Commento
L’art. 9 dedicato al segreto
professionale è stato sostanzialmente modificato
dal nuovo testo in considerazione anche della sopravvenuta approvazione della
legge n. 675 del 1996, che istituisce l’Autorità del Garante per la tutela dei
dati personali. Come è noto il segreto professionale è
tradizionalmente uno dei
doveri fondamentali del medico e
una delle regole essenziali della deontologia.
La nuova legge, quindi, non
costituisce altro che un rafforzamento dei compiti che già il medico era
tenuto a osservare per quanto riguarda la tutela dei
dati e delle notizie relative ai propri pazienti. A questo riguardo occorre
notare come tra le cause che costituiscono "giusta causa" di rivelazione
del segreto professionale è stato aggiunto un punto c) che prevede la
possibilità di derogare alle norme sul
segreto professionale, laddove esista l’urgenza di
salvaguardare la vita o la salute di terzi
anche in caso di diniego
dell’interessato, ma previa autorizzazione del Garante per la protezione dei
dati personali.
Si è inteso con tale modificazione
sancire che, per la deroga al segreto professionale, è necessario sia l’urgenza
di salvaguardare la vita o la
salute di terzi sia l’autorizzazione del Garante. Questa autorizzazione può discendere
sia dal provvedimento generale
(autorizzazione n. 2 del 1997) sia da una richiesta specifica che il medico può
inoltrare.
Un’altra modifica rispetto alla
precedente stesura dell’art. 9 concerne l’ultimo comma che sancisce " La
cancellazione dall'albo non esime moralmente il medico
dagli obblighi del presente articolo" . Si è
voluto specificare, con la massima chiarezza, un concetto che pure poteva
ritenersi per certi versi implicito anche nella
precedente stesura dell’articolo.
Il medico, quand’anche cessasse la propria attività e chiedesse la cancellazione
dall’albo, non può ritenersi esentato dal rispetto del segreto professionale.
E’ questa una considerazione abbastanza importante considerando che le rivelazioni
concernenti la salute e i dati sensibili di alcuni
pazienti potrebbero riguardare, inoltre, soggetti molto noti al pubblico e vi
potrebbe essere un interesse economico per il medico,
anche se non più professionalmente in attività, a utilizzare alcune conoscenze
acquisite durante la propria vita professionale anche per scopi di lucro
non certo commendevoli.
Il segreto professionale, che, come è noto, è anche
previsto dal codice penale (artt. 326 e 622) è un obbligo imposto a determinati
professionisti di non divulgare
notizie di cui sono venuti a conoscenza a cagione della loro professione. E'
chiaro che la norma penale si riferisce anche ad avvocati, magistrati,
commercialisti ed altri ma è altrettanto chiaro che per il medico la
problematica del segreto professionale è particolarmente importante
considerando la delicatezza del rapporto che si instaura
fra medico e paziente. Il
segreto professionale viene definito dal punto di vista
giuridico una relazione che
intercorre fra la conoscenza di cose e
fatti e un determinato soggetto.
Il paragone fra norma deontologica e norma penale, è indubbiamente necessaria,
ma occorre mettere in risalto alcune sostanziali differenze.
Ai sensi dell'art. 622 del codice
penale, infatti, la rivelazione del segreto professionale è
punibile solo se ne possa derivare nocumento.
Il codice deontologico, invece,
nel confermare l'importanza strettamente etica del principio stesso, non fa
questa distinzione e prevede,
quindi, la sanzionabilità
del comportamento del medico anche
quando dalla rilevazione non derivi danno ad alcuno.
Nel secondo comma dell'art. 9 è, peraltro, prevista la particolare riprovazione
della divulgazione del segreto
professionale fatta a scopo di lucro
oppure al fine di arrecare specifico
nocumento: ciò non toglie che la violazione dell'obbligo sussista anche senza
queste specifiche caratteristiche dolose.
Un'altra distinzione da fare è
quella concernente l'esimente generale della giusta causa, prevista dall'art.
622 del c.p., e non dall'articolo 9 del codice
deontologico. Questa differenza
porta molti a ritenere che anche in questo caso la norma deontologica sia più
rigorosa rispetto a quella penalistica che,
attraverso l'esimente della giusta causa, permette al professionista di
valutare i casi in cui possa ignorare l'obbligo del segreto professionale. In
realtà la dottrina prevalente (Lega, Introna etc.) ritiene che le deroghe
espresse sotto i punti a) e b) del terzo comma dell'articolo in commento
costituiscano non un sistema chiuso e tassativo, ma un'elencazione
esemplificativa passibile quindi di interpretazione
estensiva quando sussistano situazioni analoghe e similari.
In realtà, a prescindere dalla valutazione che si voglia dare del problema, non
può non sottolinearsi che anche in questo caso il codice
deontologico sembra obbligare il medico con
estremo rigore al rispetto del segreto professionale considerato uno dei cardini
della professione sin dai tempi del giuramento di Ippocrate.
Esaminando le deroghe previste dal comma 2° dell'art. 9, del codice
deontologico, occorre innanzi tutto chiarire che il medico, in
qualità di pubblico ufficiale o di
incaricato di pubblico servizio, è
tenuto (v. artt. 331, 334, cpp
e artt. 365, 384 c.p.) alla denuncia del reato di cui
sia a conoscenza per motivo della sua funzione o al referto (cioè
l'indicazione della persona
alla quale è stata prestata assistenza, e, se è possibile delle sue generalità
del luogo dove si trovi attualmente e quant'altro valga a identificarla nonchè del luogo, del tempo e delle altre circostanze
dell'intervento).
La denuncia e il referto devono essere portati a conoscenza dell'autorità giudiziaria
e quindi costituiscono
indubbiamente deroghe all'obbligo del segreto professionale. Il motivo è
evidente e consiste nell'assoluta priorità dell'esigenza di
giustizia sulle pur importanti motivazioni di
riservatezza che costituiscono l'essenza dell'obbligo del segreto
professionale.
In alcuni casi, come specifica l'articolo, il medico è
anche tenuto ad alcune certificazioni obbligatorie o facoltative che possono
costituire anch'esse deroghe all'obbligo del segreto.
Il secondo tipo di
deroghe, quelle cioè previste dalla lett. b) del terzo
comma dell'articolo in commento, si basa sul c.d. consenso dell'avente diritto;
cioè quando lo stesso interessato (il malato o i legali rappresentanti del
minore o dell'incapace) autorizzi o addirittura
richieda la divulgazione di
notizie coperte dal segreto professionale.
In questo caso si applica un principio generale della scienza penalistica, previsto all'art. 5 del c.p. che testualmente
prevede che "non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto
con il consenso della persona che può validamente disporne".
In buona sostanza non c'è miglior giudice di chi
eventualmente subirebbe il danno dalla rivelazione delle notizie da tenere
segrete sulla opportunità o meno della rivelazione
stessa. Occorre al riguardo, peraltro, precisare che a volte l'obbligo del
segreto professionale è posto a tutela di un
interesse della collettività di cui
neanche il paziente può essere arbitro. Il medico, in
questi casi, ancorché facoltizzato dal proprio
paziente alla rilevazione del segreto rimane titolare della decisione finale di divulgare
o meno la notizia secondo il proprio prudente
apprezzamento.
Il sistema delle deroghe, comunque, attribuisce al medico la
valutazione sull'opportunità di
svelare il segreto quando sia in grave pericolo la salute o la vita di terzi.
A nostro avviso tale previsione, di
carattere molto ampio, è pur sempre applicabile in modo più restrittivo
rispetto alla "giusta causa" prevista come deroga dall'art.
622 del c.p..
La deroga di cui trattasi
attribuisce al medico la
responsabilità di superare l’obbligo del
rispetto del segreto quando, a suo giudizio,
esistano situazioni estremamente gravi che mettono a repentaglio la salute e la
vita dei terzi, ferma restando la preventiva autorizzazione del Garante per la
tutela dei dati personali, in relazione anche a quanto già specificato.
L'obbligo della non divulgazione
del segreto professionale rimane a carico del medico
anche dopo la morte del paziente a tutela del diritto
alla riservatezza di cui
gli eredi sono i depositari
secondo le normali regole successorie quali ideali continuatori della
personalità dello scomparso.
L'ultimo comma dell'articolo in commento affronta una delle problematiche più scottanti del rapporto fra deontologia medica e ordinamento
giudiziario. Tale comma
prevede, infatti, il divieto
per il medico di
testimoniare al Giudice su
fatti di cui egli sia venuto a conoscenza per ragioni dipendenti
dall'esercizio della professione. E' necessario subito ricordare che l'art. 200
cpp riconosce che i medici e
gli altri esercenti le professioni sanitarie non hanno
l'obbligo di deporre su quanto hanno
conosciuto in ragione della loro professione. Si potrebbe quindi
sostenere che non esiste un contrasto esplicito fra norma deontologica e norma
penale.
Bisogna però sottolineare che, innanzi tutto, il
segreto professionale trova già una limitazione nell'obbligo di
referto (art. 365 c.p.) che sussiste sempre tranne nei casi in cui il referto
stesso esporrebbe la persona assistita a procedimento
penale. La giurisprudenza, inoltre, è più volte intervenuta in materia
riconoscendo, pur tra qualche contrasto, la possibilità per il giudice di
chiedere al medico di testimoniare
quando lo stesso giudice ritenga che i fatti di cui il
professionista è a conoscenza non siano legati allo svolgimento dell'attività
professionale in ragione del suo stato.
Art. 10 Documentazione e tutela dei dati
Il medico deve
tutelare la riservatezza dei dati personali e della documentazione in
suo possesso riguardante le persone anche se affidata a codici o
sistemi informatici.
Il medico deve
informare i
suoi collaboratori dell'obbligo del segreto professionale e deve vigilare affinchè essi vi si conformino.
Nelle pubblicazioni scientifiche di dati
clinici o di osservazioni relative a singole
persone, il medico deve
assicurare la non identificabilità delle stesse.
Analogamente il medico non
deve diffondere,
attraverso la stampa o altri mezzi di informazione,
notizie che possano consentire la identificazione del soggetto cui si
riferiscono.
Commento
L’impianto dell’art. 10, che tratta del dovere fondamentale del medico di
tutelare e garantire la riservatezza della documentazione in proprio possesso,
viene nel nuovo codice di
deontologia medica, semplicemente
aggiornato e connesso alla nuova disciplina
della privacy introdotta con la legge n. 675 del 1996.
Il titolo dell’articolo, infatti, viene ampliato in
"Documentazione e tutela dei dati" proprio per sottolineare come -
finalmente - l’Italia, mettendosi al pari con gli altri paesi europei ed
extraeuropei, abbia inteso tutelare l’ambito dei dati cosiddetti sensibili,
ossia di quei dati che
riferendosi alla sfera più intima dell’individuo
non devono correre il rischio di essere
utilizzati in maniera distorta
o, comunque, illegittima.
Il primo comma dell’articolo, risentendo di questa
nuova disciplina, sottolinea la necessità per il medico di
tutelare la riservatezza di questi
dati personali e di tutta
la documentazione a lui stesso affidata.
E’ stato volutamente eliminato in questo articolo il
riferimento alla diffusione
dei bollettini medici,
problema che, proprio perché legato alla nuova disciplina
in tema di privacy, si è voluto
spostare all’articolo successivo, in quanto la situazione è sembrata più
aderente a quella ivi descritta.
L’art. 10, come il precedente articolo, costituisce un'applicazione del c.d.
principio della riservatezza che impronta di sè tutta la materia deontologica. In quest'articolo si fa
specifico riferimento all'obbligo di
conservare e custodire la
documentazione clinica riguardante i pazienti garantendone la riservatezza.
Ovviamente tale documentazione costituisce il supporto necessario per la diagnosi,
cura e terapia del malato e pertanto non devono esservi altri interessati oltre
al medico o ai medici
curanti.
Indubbiamente una violazione del rapporto fiduciario che lega il medico al
paziente influirebbe in modo negativo anche sulla prestazione professionale in quanto si introdurrebbero degli aspetti di
reticenza da parte del malato timoroso di veder
resi pubblici fatti e circostanze che preferirebbe mantenere riservati.
L'introduzione anche nel campo sanitario dell'informatica
rende ancora più delicato questo problema e obbliga il medico a
vigilare con particolare attenzione sulla riservatezza delle informazioni
di cui fatalmente entra in
possesso.
Il medico con il progredire dei
tempi sempre più facilmente opera in collaborazione con colleghi o con altre
figure professionali (infermieri, tecnici etc.).
E’, peraltro, innegabile che la pubblicazione di interessanti
esperienze medico-scientifiche
rappresenta una garanzia fondamentale per il progresso della medicina. Anche in questa situazione si scontrano due interessi confliggenti: quello alla riservatezza del paziente che
costituisce l'oggetto della pubblicazione e quello alla divulgazione
scientifica dei dati e delle osservazioni ai fini del progresso della scienza
medica. In questo caso (si ricordi che
l'art. 9 della Cost. si preoccupa di
tutelare la ricerca scientifica e tecnica) prevale il secondo interesse che
deve però essere contemperato con il primo. Il medico
deve, pertanto, prestare la massima attenzione affinchè
dai dati e dalle osservazioni non sia possibile
l'identificazione dei soggetti curati.
Lo stesso principio sussiste con maggior asprezza nei rapporti tra medico e
mass media. Molto spesso,
infatti, personaggi pubblici rischiano di veder
pubblicate o comunque diffuse
notizie riguardanti la loro malattia con rilevante danno alla loro sfera di
intimità ed anche alla loro dignità
personale. E' ovvio che il medico, per
quanto in suo potere, non può rendersi colpevole di questi
comportamenti ed è tenuto anche a vigilare sui propri collaboratori affinchè non trapelino notizie che possano danneggiare la
riservatezza cui ha diritto
anche la persona pubblica.
Art. 11 Comunicazione e diffusione di dati
Nella comunicazione di atti o di
documenti relativi a singole persone, anche se destinati a Enti o Autorità che
svolgono attività sanitaria, il medico deve
porre in essere ogni precauzione atta a garantire la tutela del segreto
professionale.
Il medico,
nella diffusione
di
bollettini medici,
deve preventivamente acquisire il consenso dell'interessato o dei suoi legali
rappresentanti.
Il medico non
può collaborare alla costituzione di banche
di dati
sanitari, ove non esistano garanzie di tutela
della riservatezza, della sicurezza e della vita privata della persona.
Commento
Ricollegandosi a quanto detto per l’articolo precedente, l’art. 11 viene modificato
sostanzialmente rispetto al precedente del codice del
1995.
Il titolo, infatti, da "Cartelle cliniche e documentazione" si
trasforma in "Comunicazione e diffusione
dati" proprio per sottolineare la delicatissima responsabilità che vede
spesso il medico in prima linea nella
trasmissione, comunicazione e diffusione
di quanto viene a sua conoscenza,
per la qualifica che egli stesso riveste.
Quindi un momento
delicatissimo che, con l’art. 11, riceve una tutela specifica e decisamente rafforzata rispetto al passato. E’ storia
recente il problema connesso alla diffusione
di bollettini medici
riguardanti soggetti di
particolare notorietà.
Viene sottolineato con maggiore forza rispetto al
passato, anche se il tema del consenso è materia che già nel codice del
1995 ha costituito elemento di svolta
di tutta la normativa
deontologica, la necessità dell’acquisizione preventiva del consenso sia
dell’interessato che, eventualmente, dei legali rappresentanti nel caso si
renda necessaria la diffusione
di bollettini medici.
CAPO IV - ACCERTAMENTI
DIAGNOSTICI E TRATTAMENTI TERAPEUTICI
Art. 12 Prescrizione e trattamento terapeutico
-La
prescrizione di un
accertamento diagnostico e/o di una
terapia impegna la responsabilità professionale ed etica del medico e
non può che far seguito a una diagnosi
circostanziata o, quantomeno, a un fondato sospetto diagnostico.
Su tale presupposto al medico è
riconosciuta autonomia nella programmazione, nella scelta e nella
applicazione di ogni
presidio diagnostico
e terapeutico, anche in regime di
ricovero, fatta salva la libertà del paziente di
rifiutarle e di
assumersi la responsabilità del rifiuto stesso.
Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e
sperimentate acquisizioni scientifiche anche al fine dell’uso appropriato delle
risorse, sempre perseguendo il beneficio del paziente.
Il medico è
tenuto a una adeguata conoscenza della natura e degli
effetti dei farmaci, delle loro indicazioni,
controindicazioni,
interazioni e delle prevedibili
reazioni individuali,
nonchè delle caratteristiche di
impiego dei mezzi diagnostici
e terapeutici e deve adeguare, nell’interesse del paziente, le sue decisioni ai
dati scientifici accreditati e
alle evidenze metodologicamente fondate.
Sono vietate l’adozione e la diffusione
di
terapie e di presidi diagnostici
non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e
documentazione clinico-scientifica, nonché di
terapie segrete.
In nessun caso il medico
dovrà accedere a richieste del paziente in contrasto
con i principi di
scienza e coscienza allo scopo di
compiacerlo, sottraendolo alle sperimentate ed efficaci cure disponibili.
La prescrizione di
farmaci, per indicazioni
non previste dalla scheda tecnica o non ancora autorizzate al commercio, è
consentita purchè la loro efficacia e tollerabilità sia scientificamente documentata.
In tali casi, acquisito il consenso scritto del paziente debitamente informato,
il medico si
assume la responsabilità della cura ed è tenuto a monitorarne gli effetti.
E’ obbligo del medico
segnalare tempestivamente alle autorità competenti, le reazioni avverse
eventualmente comparse durante un trattamento terapeutico.
Commento
Questo articolo è fondamentale
all’interno del codice ed è
da ritenere, indubbiamente, punto di snodo
dell'intero impianto codicistico. Come
già detto il procedimento
seguito per l’approvazione del nuovo codice di
deontologia medica è stato
caratterizzato da una rafforzata democraticità di
confronto. Il dibattito all’interno
degli Ordini su principi
fondamentali e sul dettaglio dell’impianto codicistico è
stato particolarmente serrato e l’art. 12 è stato uno degli articoli
maggiormente approfonditi
proprio per la significatività degli elementi contenuti nel testo stesso, primo
fra tutti l’introduzione del principio dell’uso
appropriato delle risorse economiche, principio che non può, comunque, condizionare
l’autonomia del medico
nelle appropriate scelte diagnostiche
e terapeutiche.
Si tratta di un principio voluto
proprio perché rispondente a indirizzi e
scelte ormai acquisiti a livello nazionale e internazionale. In questo senso è
stata sottolineata la necessità di una
equa allocazione delle risorse economiche a disposizione,
anche attraverso la responsabilizzazione del medico,
nell’interesse dell’intera collettività.
Nell’art. 12 è rimarcata l’autonomia che accompagna il medico
nella programmazione, nella scelta del presidio diagnostico
terapeutico da applicare, da confrontare con la libertà di scelta
che a ciascun cittadino è
riconosciuta; libertà comunque supportata da una effettiva e consapevole
assunzione di responsabilità in caso di
rifiuto di cure proposte.
L’ultima parte dell’art. 12 sottolinea con particolare
forza il principio di
autonomia del medico, di
responsabilità dello stesso riguardo alle scelte terapeutiche da effettuare. Si
sottolinea il dovere del medico di
accedere alle richieste del paziente, ma assolutamente di
respingerle laddove queste fossero in contrasto con quei principi di
scienza e coscienza che sono fondamento etico dell’esercizio professionale.
Quest’articolo costituisce una summa di
principi basilari per l’attività professionale del medico.
L'autonomia professionale è una delle caratteristiche che contraddistinguono
il professionista anche in rapporto di lavoro
subordinato. Nell'ambito della
prestazione professionale cui il medico è
quotidianamente chiamato esiste
un ambito di discrezionalità
culturale e tecnica e un'indipendenza,
anche gerarchica, del professionista che, sotto la propria responsabilità, si
occupa della diagnosi, della cura e
della terapia del paziente.
A questo potere discrezionale
corrisponde una correlativa responsabilità civile, penale e deontologica per
eventuali errori inescusabili commessi. Molto ampio e
delicato il dibattito che si sta
ancora svolgendo, in dottrina e giurisprudenza, sulla natura della
responsabilità professionale con particolare riferimento al grado della colpa
che può rendere il medico
"imputabile" da un punto di vista
penale o, comunque, obbligarlo al risarcimento dei
danni da un punto di vista civilistico.
Come è noto la responsabilità civile del prestatore
d'opera intellettuale, e quindi anche
del medico, è limitata solo al
dolo o alla colpa grave se la prestazione implica la soluzione di
problemi tecnici di
"speciale" difficoltà
(art. 2336 c.c.).
Questa limitazione che riguarda soltanto il campo del diritto
civile si applicherebbe non soltanto alla responsabilità contrattuale, ma anche
a quella extracontrattuale cioè derivante da fatto illecito (cfr. Cass. 81/1544 e Cass. 71/1282). Questa limitazione di
responsabilità era in passato applicata anche al campo
penalistico contribuendo a creare un tipo di
responsabilità per il professionista più attenuata rispetto a quella relativa
alla normalità dei cittadini. Vi
è da dire che ultimamente
questi orientamenti sono stati modificati
dalla giurisprudenza in varie sentenze in cui è stata sancita la responsabilità
del professionista secondo i comuni canoni della colpa scaturente da
imprudenza, imperizia e negligenza. Senza pretendere di
sintetizzare tutta la complessa problematica della c.d. colpa professionale e
della correlativa responsabilità è però opportuno fare cenno al concetto di
consenso informato.
Il medico deve, cioè, ottenere il consenso alle cure o agli interventi che
intende realizzare da parte del paziente stesso ove possibile o, altrimenti,
dai suoi legali rappresentanti. Il consenso in forma scritta è, ovviamente,
necessario quando si tratti di
interventi delicati e pericolosi per la vita del paziente stesso.
Il medico, a questo riguardo,
deve fornire la necessaria e completa informazione
affinché tale consenso non possa essere considerato frutto di ignoranza
sulle effettive conseguenze dell'attività del medico.
E' opportuno, infine, segnalare che da un punto di vista
processuale e di prova, secondo i
normali canoni giuridici, al
medico, come a qualsiasi altro
professionista, spetta l'obbligo di dimostrare
di aver svolto il proprio
incarico professionale: spetterà, invece, al paziente provare di aver subito un danno
derivante dalla colpa del professionista stesso.
Il medico, come qualsiasi altro
libero professionista, è tenuto a fornire prestazioni di
carattere tecnico e culturale fondate su precise conoscenze ed esperienze
derivanti, a loro volta, dalla scienza ufficiale che, come è
noto, si evolve in continuazione. Da ciò emerge l'obbligo dell'aggiornamento
professionale che costituisce, peraltro, oggetto specifico del successivo art.
16 del codice deontologico.
Le prescrizioni e i trattamenti terapeutici devono, poi, essere ispirati al
principio del c.d. "rischio-beneficio". I pericoli e le controindicazioni
della cura devono cioè essere bilanciati dalla
possibilità di successo o, comunque, di buon
risultato della cura stessa. Quello che il comma dell'articolo in commento vuol
significare è che deve essere evitata la c.d. "temerarietà
professionale", cioè una condotta che non tenga
conto di possibili complicazioni
e di eventuali conseguenze dannose,
ispirata a una ottimistica, ma non completamente fondata, fiducia sulle
potenzialità positive della cura e dell'intervento prescelto.
Il medico è tenuto ad una adeguata conoscenza dei farmaci e dei loro effetti e
conseguenze anche nelle prevedibili
reazioni individuali. E' tenuto,
inoltre, a conoscere le caratteristiche e la natura dei mezzi diagnostici che
utilizza e prescrive. Naturalmente il livello di diligenza
e di conoscenza cui il medico è
tenuto non può essere, sempre e comunque, del livello
dello scienziato di fama
internazionale. La giurisprudenza ha già da tempo
chiarito che il punto di
riferimento per comprendere se ci siano colpe del medico è
quello basato sulla diligenza
di quel tipo medio di buon
professionista della stessa categoria cui appartiene il medico di cui
trattasi. La valutazione sul comportamento del medico non
può, ovviamente, essere limitata soltanto a criteri freddamente oggettivi e
tecnici, ma deve essere aperta alle particolari condizioni
in cui si svolge l’atto medico,
legate al rapporto di
personalità della prestazione professionale e di fiduciarietà nei confronti del paziente.
L'adozione da parte del medico di
terapie nuove deve essere limitata all'ambito della sperimentazione clinica e
non può quindi sussistere nel campo
del rapporto di cura con il paziente.
Il codice deontologico dedica alla
questione della sperimentazione clinica vari articoli cui rimandiamo per
l'approfondimento delle relative
tematiche.
La giurisprudenza ha da tempo riconosciuto al medico la
"libertà di scelta
terapeutica": il che consente al professionista di
utilizzare terapie anche non strettamente tradizionali
e comunemente praticate purchè si attenga sempre alle
regole della prudenza e del rispetto delle conoscenze scientifiche. Il medico, in
buona sostanza, cade nella colpa professionale e nella relativa responsabilità
quando il trattamento terapeutico da lui utilizzato non trovi alcun supporto o
giustificazione scientifica. Eguale responsabilità sussiste, qualora in presenza di
trattamenti terapeutici di
comprovata efficacia, il medico
scelga senza validazione terapie non ancora
sufficientemente garantite e sperimentate.
Art. 13 Pratiche non convenzionali- Denuncia
di abusivismo
La potestà di scelta
di
pratiche non convenzionali nel rispetto del decoro e della dignità
della professione si esprime nell'esclusivo ambito della diretta e
non delegabile responsabilità professionale, fermo restando, comunque,
che qualsiasi terapia non convenzionale non deve sottrarre il cittadino a
specifici trattamenti di
comprovata efficacia e richiede l'acquisizione del consenso.
E' vietato al medico di
collaborare a qualsiasi titolo o di
favorire chi eserciti abusivamente la professione
anche nel settore delle cosiddette "pratiche non convenzionali".
Il medico
venuto a conoscenza di casi di
esercizio abusivo o di favoreggiamento
o collaborazione anche nel settore delle pratiche di cui al
precedente comma, è obbligato a farne denuncia anche all'Ordine
professionale.
Il medico che
nell'esercizio professionale venga a conoscenza di
prestazioni mediche e/o
odontoiatriche effettuate da non abilitati alla professione è obbligato a farne
denuncia anche all’Ordine di
appartenenza.
Commento
E’ stato inserito nell’impianto dell’attuale codice
all’art. 13 l’argomento relativo alla pratiche non
convenzionali.
Il precedente codice inseriva
questa materia al Titolo V "Rapporti con i terzi", Capo II –
Partecipazione ad attività economiche. Denuncia dell’abusivismo. Si è ritenuto,
al contrario, opportuno che l’ambito delle pratiche non convenzionali che ha
assunto ormai una portata anche di tipo
economico rilevantissima si collochi meglio
nell’attuale Capo III "Obblighi peculiari del medico",
proprio a sottolineare quelli che sono i doveri del medico,
laddove si trovi a dover rispondere a specifiche richieste del cittadino
relative a trattamenti non riconosciuti dalla medicina
ufficiale.
L’art. 13 è estremamente chiaro nella sua
formulazione, in quanto sottolinea il principio di
autoregolamentazione della responsabilità professionale del medico che
assume carattere più incisivo laddove si tratti di
terapie non convenzionali. Il medico
dovrà impegnarsi a far sì che il cittadino non
si sottragga a specifici trattamenti di
comprovata efficacia, perseguendo illusorie speranze di
guarigione.
I trattamenti della medicina
cosiddetta non convenzionale sono un argomento che ha investito direttamente
e recentemente la Federazione. La Commissione appositamente nominata al fine di
approfondire questo delicato
argomento è arrivata alla conclusione di non
potere più ignorare un ambito di
esercizio medico estremamente ampio,
fondato su una richiesta sempre più crescente della popolazione. In questo
senso la Federazione ha consentito agli Ordini
provinciali di riportare in elenchi
conservati presso l’Ordine - a
fini esclusivamente cognitivi e non certamente valutativi - i nominativi di tutti
quei medici che esercitano le diverse
pratiche non convenzionali.
Si è inteso con questa iniziativa ribadire,
comunque, che l’esercizio di
pratiche non convenzionali è riservato ai medici.
Art. 14 Accanimento diagnostico- terapeutico
Il medico deve
astenersi dall’ostinazione in trattamenti, da cui non si possa
fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un
miglioramento della qualità della vita.
Commento:
Questo articolo insieme ai successivi
articoli 36 e 37 dedicati
rispettivamente ai temi dell’eutanasia e dell’assistenza al malato inguaribile,
costituisce una summa dei doveri del medico di fronte
al malato inguaribile. Questo articolo in particolare deve essere letto come un
esempio pratico dell’orientamento insito in tutto il nuovo codice di
deontologia medica relativamente
al rispetto della personalità del malato e al rapporto paritario fra medico e
paziente. Come attraverso il divieto
dell’eutanasia non è permesso al medico di
compiere alcun atto diretto
alla soppressione della vita, così con questo articolo,
correlativamente, si vieta l’accanimento diagnostico
terapeutico consistente in una inutile ostinazione in trattamenti che non
possono né salvare la vita del paziente né migliorare la qualità della vita
residuale.
Se il concetto di accanimento terapeutico può essere sufficientemente
chiaro occorre, invece, specificare che si parla di
accanimento diagnostico quando il medico, pur
in presenza di una prognosi infausta
continui a sottoporre un paziente ad esami e a ricerche inutili (si pensi ad
una malattia neoplastica in cui il tumore abbia dato origine a varie metastasi
senza che il medico abbia avuto la
possibilità di scoprire qual è la
forma originaria).
Naturalmente si è in presenza di situazioni
drammatiche in cui il medico
spesso può trovarsi solo davanti alla propria coscienza e sotto la spinta
emozionale dei parenti del malato che umanamente potrebbero indurlo a tentare
anche l'impossibile e addirittura
il dannoso pur di mantenere qualche
speranza. Occorre innanzi tutto chiarire che lo stesso art. 37 del codice
deontologico fornisce alcuni orientamenti sui compiti del medico di fronte
a malattie a prognosi sicuramente infausta.
In riferimento all'accanimento diagnostico-terapeutico
e in contrapposizione a questo è utile invece accennare alla medicina
palliativa quale risposta adeguata che il medico può
dare di fronte al malato
inguaribile.
La medicina palliativa si
preoccupa di assicurare, per quanto
possibile, la libertà dal dolore, libertà da altri sintomi (vomito, insonnia,
etc.), la conservazione di una
certa autonomia fisica e, ove possibile, la conservazione di un
ruolo sociale e familiare.
Art. 15 Trattamenti che incidono sulla integrità
psico-fisica
I trattamenti che comportino
una diminuzione
della integrità e della resistenza psico-fisica del
malato possono essere attuati, previo accertamento delle necessità
terapeutiche, e solo al fine di
procurare un concreto beneficio clinico al malato o di
alleviarne le sofferenze.
Commento:
L’attuale formulazione dell’articolo rispecchia quasi completamente il
vecchio testo del 1995, a parte l’aggiunta "… e solo al fine di
procurare un concreto beneficio clinico al malato o di
alleviarne le sofferenze" e tutelarne, per quanto possibile, la qualità
della vita.
Si è inteso, in tal modo, sottolineare e precisare che
il trattamento di particolare rilievo
debba essere finalizzato in maniera esclusiva al beneficio clinico del malato
per alleviarne le sofferenze.
Si tratta, quindi, di trattamenti
che responsabilizzano il medico
nella valutazione più attenta delle conseguenti indicazioni
terapeutiche.
L'articolo vuole chiarire che il medico nel
suo incontro con la malattia inguaribile non deve mai perdere di vista
la dignità dell'uomo.
Il paziente non deve mai divenire
"un campo di battaglia" di una
contesa fra il medico e la
morte: in questo modo la medicina
rischia di diventare
pratica freddamente tecnologica e parossisticamente
competitiva.
CAPO V - OBBLIGHI
PROFESSIONALI
Art. 16 Aggiornamento e formazione professionale permanente
Il medico ha
l’obbligo dell'aggiornamento e della formazione professionale
permanente, onde garantire il continuo adeguamento delle sue conoscenze e
competenze al progresso clinico scientifico.
Commento:
Con questo articolo l’Ordine
professionale rivendica con
piena coscienza il proprio compito di
garante insostituibile dell’aggiornamento e della formazione professionale
permanente del medico e
dell’odontoiatra, in ferma opposizione ad alcune iniziative legislative che lo
vorrebbero esautorare da questo compito fondamentale per relegarlo a un mero
ruolo notarile.
E' giusto, peraltro, osservare che il progresso continuo ed estremamente
veloce della scienza medica, il diversificarsi
sempre più delle varie branche di
specializzazione non possono permettere al singolo medico, benchè diligente
e coscienzioso, di essere
al corrente di tutte le acquisizioni
scientifiche. Si deve rilevare, però, che l'obbligo di aggiornamento
si sostanzia più che altro in una "tensione morale" che deve spingere
il medico a migliorare le
proprie conoscenze per offrire ai pazienti prestazioni professionali il più
possibile adeguate alle loro necessità.
L'obbligo dell'aggiornamento professionale ha rilevanza anche deontologica: si
ritiene che alcune mancanze professionali causate dalla scarsa preparazione
culturale, provocata dal trascurato aggiornamento, possano costituire oggetto di procedimento disciplinare
a carico del medico che se ne renda
colpevole. Inoltre il medico che
non si preoccupi di
mantenersi aggiornato può procurare discredito
all'intera categoria concedendo all’Ordine la
facoltà di intervenire disciplinarmente.
Dopo aver sottolineato che, comunque, è la coscienza
professionale del medico che
deve costituire il primo fondamentale stimolo per soddisfare
l’esigenza di aggiornamento e di
formazione permanente, è opportuno rilevare che quest'obbligo ha rilevanza
anche giuridica e che la sua
violazione può essere considerata anche come colpa professionale in senso
tecnico. L'art. 2 della legge 23 dicembre
1978 n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, prevede
esplicitamente, tra gli obiettivi da perseguire, la formazione professionale
permanente nonchè l'aggiornamento scientifico
culturale del personale del S.S.N..
titolo 3° - RAPPORTI CON IL CITTADINO
CAPO I - REGOLE GENERALI DI COMPORTAMENTO
Art. 17 Rispetto dei diritti del cittadino
Il medico nel
rapporto con il cittadino deve
improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti
fondamentali della persona.
Commento:
La tradizionale terminologia
"paziente" del Codice è
stata, non completamente, sostituita, ma fortemente innovata, rispetto ai Codici
precedenti.
Si è volutamente scelto di
utilizzare in prevalenza il termine cittadino
laddove si è inteso sottolineare una universalità di
principi fondamentali. L’art. 17 è appunto uno di questi
articoli, particolarmente significativo, che può
essere considerato chiave di
lettura utile per individuare
l’esatta prospettiva secondo cui la professione medica si
colloca nell’ambito della società.
Si è al contrario fatto ricorso alla terminologia "persona assistita"
o "malato" laddove si è inteso scongiurare
il rischio di letture paternalistiche
e anacronistiche del rapporto medico
cittadino, oltre che il frequente
errore di significato riguardo
alla parola paziente intesa quasi sempre come colui che sopporta quando invece
letteralmente dal latino patior è da tradurre
in colui che soffre.
Con il nuovo art. 17 cambia, in via generale, l'impostazione del rapporto medico-paziente. Da posizione passiva si passa
a quella attiva di tutela
e di rispetto dei suoi diritti
fondamentali, dando un chiaro segnale di un diverso
proporsi del rapporto medico-paziente.
Nell'ambito di tale rapporto la
posizione obiettivamente predominante del medico -
dovuta alle sue competenze professionali, alla rilevanza del bene salute che si
trova a gestire, all'affidamento psicologico che il paziente ha nei suoi confronti- deve, comunque, essere dal medico
stesso fatta oggetto di
un'opera continua di
bilanciamento e riequilibrio con la posizione della persona assistita così da
garantire il rispetto dei diritti di
quest'ultimo in quanto persona.
Si è operato nel nuovo codice un
importante recepimento di
principi fondamentali della Carta Costituzionale (art. 2 e 3 Cost.) e, quindi, una
trasformazione di tali principi da norma
giuridica a norma deontologica.
Questa scelta non è di
secondario rilievo; infatti da un pregresso divieto di
strumentalizzazione della propria posizione professionale a fini di
prevaricazione e di
dominio psicologico sul paziente si è passati a una funzionalizzazione
di detta posizione, al
riconoscimento e al rispetto dei diritti
fondamentali del paziente, ulteriori e non secondari rispetto a quello della
salute sancito dall'art. 32 della Costituzione.
L'art. 17 è in parte una traduzione ancor più puntuale del principio espresso
dalla Conferenza Internazionale degli Ordini dei
Medici (anno 1987), secondo cui
"... il medico non può sovrapporre
la sua concezione di vita a
quella del paziente" e, in parte, è anche un superamento di tale
principio in quanto nella stessa formulazione della norma deontologica viene
tratteggiato un rapporto medico-paziente in cui
le rispettive posizioni sono ab origine paritarie e
non vi è più alcun accenno alla predominanza della posizione del
professionista.
Di ciò si ha poi riscontro e conferma in altre norme dello stesso codice
quali quelle concernenti l'informazione
e il consenso del paziente
L'articolo in esame è, sostanzialmente, l'indice del
mutamento, intervenuto in ambito sociale, del rapporto medico-paziente, che è
divenuto paritario, per una serie
di ragioni fra cui la crescita
del livello culturale medio e la
maturata coscienza dei diritti
individuali.
Il mutamento del rapporto medico-cittadino, anche
in ambito sociale e giuridico,
esalta il vero significato della deontologia medica.
Art. 18 Competenza professionale
Il medico deve
garantire impegno e competenza professionale, non assumendo obblighi che non sia in condizione di soddisfare.
Egli deve affrontare i problemi diagnostici
con il massimo scrupolo, dedicandovi
il tempo necessario per un approfondito
colloquio e per un adeguato esame obiettivo, avvalendosi delle indagini
ritenute necessarie.
Nel rilasciare le prescrizioni diagnostiche,
terapeutiche e riabilitative deve fornire, in termini
comprensibili e documentati, tutte le idonee informazioni
e verificarne, per quanto possibile, la corretta esecuzione.
Il medico che
si trovi di fronte
a situazioni cliniche, alle quali non sia in grado di
provvedere efficacemente, deve indicare al
paziente le specifiche competenze necessarie al caso in esame.
Commento:
Questo articolo deve essere letto alla
luce del principio enunciato nel precedente concernente la necessità del
massimo rispetto dei diritti
del cittadino da parte del medico.
Nell’articolo viene chiaramente enunciato l’obbligo
del medico di
garantire il massimo impegno e il massimo scrupolo in tutti i suoi rapporti
professionali con il cittadino.
Nel primo comma dell’articolo è stato anche inserito il principio che il medico non
deve assumersi obblighi, si intende di
risultato professionale, che non sia in condizione di soddisfare .
Viene anche enunciata chiaramente la necessità di un
rapporto stretto con il cittadino
attraverso l’approfondito
colloquio e la necessità dell’utilizzazione di tutto
il tempo necessario per garantire i risultati attesi.
Il rapporto medico-cittadino deve
essere caratterizzato sia dalla puntuale e completa informazione,
sia dalla necessità dell’utilizzazione di
terminologie comprensibili, che non allontanino il
cittadino dal medico e
che, principalmente, gli garantiscano la possibilità di
comprendere correttamente le informazioni
e le prescrizioni diagnostiche,
terapeutiche e riabilitative fornite dal professionista.
Anche da tale norma emerge la scelta operata a favore di un
modello di medicina
che viene definito dal C.N.B.
"della beneficialità". Secondo tale modello
"viene riconosciuto come imprescindibile
l'impegno morale del singolo professionista ad agire nell'interesse del malato,
considerato nella sua globalità. Sempre in questo modello la tutela della
salute personale (salute che non coincide con la riparazione di un
ingranaggio guasto nè con la normalizzazione di un
parametro biologico alterato) esige una significativa
comprensione dei vissuti, delle speranze, delle paure di chi
soffre e perciò richiede che il medico
possieda e coltivi alcune qualità umane (capacità d'ascolto e di dialogo,
sensibilità psicologica, delicatezza di tatto)
che lo abilitino ad adempiere ai suoi doveri professionali". (La nostra
società e i modelli di medicina -
CNB 20 giugno 1992 - Informazione e consenso all'atto medico).
L'art. 18 va considerato anche come un interessante esempio di
trasposizione in termini deontologici di obblighi giuridici.
Il primo comma dell'articolo in esame, laddove sancisce il dovere del medico di
"garantire al paziente impegno e competenza professionale", opera,
infatti, in termini sintetici ed efficaci una individuazione
del modello comportamentale in grado di
evitare al medico ciò che in campo
giuridico è la responsabilità
per colpa professionale che, come è noto, può derivare da negligenza, imperizia
o imprudenza.
Art. 19 Rifiuto d'opera professionale
Il medico al
quale vengano richieste prestazioni che contrastino
con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la
propria opera, a meno che questo comportamento non sia di grave
e immediato
nocumento per la salute della persona assistita.
Commento:
Il titolo dell’articolo è stato ridefinito rispetto al testo del 1995. Si
è, infatti, eliminato il riferimento specifico alla obiezione
di coscienza. Questa scelta nasce
dalla volontà di dare all’articolo
stesso un’ampiezza etica che il riferimento all’obiezione di coscienza,
legislativamente disciplinata
da tre specifiche leggi – una riguardante il rifiuto di
espletare il servizio militare e le altre di
maggiore interesse per la professione medica,
relativa alla interruzione volontaria della gravidanza e alla sperimentazione
sugli animali - avrebbe forse ridotto.
La valenza del presente articolo è rinvenibile dal rilievo etico che è un
elemento fondamentale della professione insito nella natura stessa
dell’attività medica, che
ha nella tutela della salute il proprio fondamentale e principale obiettivo, in risposta a quello che è costituzionalmente un diritto
riconosciuto al cittadino.
Il principio che in questo articolo viene sottolineato
trova le proprie radici
nella nostra carta costituzionale ed ha carattere universale.
La Repubblica, infatti, riconosce e garantisce i diritti
inviolabili della persona, tra i quali anche quello di
aderire liberamente a varie impostazioni culturali e ideologiche.
Il cittadino è tenuto al rispetto
della norma positiva, ma nel caso di profondi
contrasti con i propri principi morali, può essere eccezionalmente autorizzato
dalla norma stessa a rifiutare l'adempimento di un
obbligo stabilito dalla legge.
Al di là delle questioni più rilevanti concernenti l'obiezione di
coscienza, così come prevista e disciplinata
nella legge 194/78 va, comunque, rilevato come tale facoltà nel codice
deontologico sia oggetto di una
previsione di carattere generale che
la connette a qualsiasi tipo di
intervento sanitario che abbia implicazioni con convinzioni d'ordine
morale e clinico del medico
stesso.
Tale previsione, proprio per la sua ampiezza, comporta, però, la necessità di un
raccordo con quella, pure d'ordine
generale di cui all'art. 17 del
medesimo codice, che sancisce
l'obbligo al medico, nel rapporto con il
paziente, d'improntare la propria attività personale al rispetto dei diritti
fondamentali della persona.
Da ciò il difficile bilanciamento
tra i diritti di
libertà e gli autonomi convincimenti del paziente e del medico, relativamente a tutta una serie di
interventi sanitari rispetto ai quali si registrano diversi
orientamenti etici.
Come esempio più significativo al riguardo, basti
accennare alla problematica della contraccezione e in particolare alla scelta
delle diverse metodiche; si
sono, infatti, registrati da parte di
sanitari di stretta osservanza
cattolica episodi di
rifiuto di prescrizione di
contraccettivi orali.
Su tali questioni, al di là di implicazioni e
conseguenze d'ordine
giuridico, tanto più stringenti
nel caso di sanitari dipendenti
o convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale, nei confronti dei quali
sono configurabili eventuali responsabilità civili e penali, la valutazione di
carattere deontologico va svolta proprio sulle direttrici
poste dagli artt. 17 e 19 del codice di deontologia.
Tali articoli delineano il rapporto medico-paziente come incontro di due
coscienze con pari dignità,
rapporto che deve svolgersi nel rispetto reciproco delle convinzioni etiche e
religiose.
Va, pertanto, considerato nello svolgimento della valutazione suddetta, quale sia la rilevanza della sfera di
libertà, autonomia e indipendenza,
rispettivamente del medico e
del paziente, coinvolti in determinate scelte e fino a che punto e come le
opzioni etiche o religiose dell'uno possano o non possano incidere nella sfera
dell'altro, nella ricostruzione di
un'armonica sintesi di quanto
affermato anche dall'art. 4 del codice
deontologico.
Meno problematico appare, invece, il rifiuto opposto
dal medico a prestare la propria
opera in interventi che contrastino con il suo convincimento clinico. In tali
ipotesi, infatti, la personale responsabilità del sanitario per la sua opera
professionale lascia a lui la più ampia libertà, fornendo idonee motivazioni,
sulla scelta di come operare e su tale
punto non c'è alcuna necessità di
bilanciamenti con diversi
interessi.
Art. 20 Continuità delle cure
Il medico deve
garantire al cittadino la
continuità delle cure.
In caso di indisponibilità,
di impedimento o
del venir meno del rapporto di
fiducia deve assicurare la propria sostituzione, informandone
il cittadino e,
se richiesto, affidandolo a colleghi di
adeguata competenza.
Il medico non
può abbandonare
il malato ritenuto inguaribile, ma deve continuare ad assisterlo anche al solo
fine di
lenirne la sofferenza fisica e psichica.
Commento
Il nuovo testo dell’art. 20 del codice di deontologica medica
ricalca sostanzialmente la stesura precedente. E’ da notare che è stato
inserito, tra i casi in cui è necessario comunque
garantire al cittadino la
continuità delle cure, anche quello relativo al venire meno del rapporto di
fiducia tra medico e cittadino
stesso.
Anche in questo caso rimane fermo l’obbligo del medico di
garantire la necessaria continuità delle cure onde
evitare nocumento al malato.
Nell’articolo è pure previsto che la continuità delle cure può essere
assicurata ovviamente anche attraverso l’affidamento del cittadino a un collega che garantisca adeguata competenza
professionale.
In tale articolo si opera una puntualizzazione, secondo una visuale specifica
concernente l'erogazione delle cure, di quanto
nel precedente art. 18 viene indicato
come obbligo di impegno che il medico deve
garantire al paziente. Nel primo comma viene infatti
stabilito il dovere del medico di
assicurare la continuità delle cure. Tale dovere, in caso di indisponibilità
o impedimento, implica la
sostituzione con colleghi di
adeguata competenza professionale, previa informazione
al paziente che può accettare o rifiutare l'assistenza del sostituto, in base
al principio del rapporto fiduciario.
Al medico viene
riconosciuto il diritto,
nel caso sia necessaria la collaborazione con colleghi o con altre figure
professionali, di instaurare tali
rapporti collaborativi solo con operatori di
propria fiducia. Ciò è pienamente giustificato dal fatto che, ferma restando la
responsabilità di ognuno per l'opera
prestata, persistono comunque per la connessione dei diversi
interventi che si operano sullo stesso soggetto, ambiti di
responsabilità comune, che richiedono che la collaborazione per essere
veramente tale si fondi su di un
preliminare e imprescindibile
rapporto di fiducia tra tutti gli
operatori.
L'ultimo comma dell'articolo sancisce il dovere del medico di
continuare l'assistenza anche nel caso di
malattia incurabile anche solo al fine di lenire
la sofferenza fisica e psichica.
Tale previsione è un'ulteriore indicazione
della scelta su cui si fonda il codice, a
favore di un rapporto medico-paziente che non deve essere
considerato solo in una prospettiva di
efficienza tecnicistica, ma, anche, di umana
solidarietà.
Tale impostazione riveste una particolare rilevanza soprattutto con riferimento
a gravi patologie quali le neoplasie o l'AIDS. Proprio con riferimento a tale
seconda patologia vanno tenuti presenti gli episodi e i
casi, fortunatamente eccezionali, di
rifiuto di prestazione fondato
sulla paura di un possibile contagio,
rifiuto deontologicamente inaccettabile.
Al riguardo va rammentato che oltre alla norme deontologiche
l'art. 5, legge 135/90, stabilisce che "gli operatori sanitari, che,
nell'esercizio della loro professione, vengano a conoscenza di un
caso di AIDS, ovvero di un
caso di infezione da HIV, anche
non accompagnato da stato morboso, sono tenuti a prestare la necessaria
assistenza adottando tutte le misure occorrenti per la tutela della riservatezza
della persona assistita".
Va, comunque, evidenziato che si ritiene giustificato il rifiuto di
assistenza al soggetto infetto da HIV da parte dell'operatore in stato di
gravidanza, allorchè non esistano adeguati mezzi di tutela
o di prevenzione o non siano
sufficienti quelli adottati dalla madre al fine di
escludere il rischio di
contagio per il concepito della cui salute la madre non può disporre.
Sulla problematica accennata risulta di
particolare interesse la raccomandazione n. R (89) 14 del Consiglio d'Europa,
concernente i problemi etici relativi alla infezione da HIV nelle strutture
sanitarie e sociali (punto c n.ri 69, 70, 71, 72),
secondo la quale: "tutti gli operatori hanno l'obbligo di
prestare assistenza alle persone infette da HIV e ai pazienti malati di AIDS;
solo quando la protezione del singolo operatore sia chiaramente insufficiente
(per mancanza di equipaggiamento
protettivo, di formazione, ecc.)
l'operatore sanitario può rifiutarsi di
eseguire prestazioni che comportino rischi. Perciò
l'operatore sanitario non può rifiutarsi per motivi etici e/o contrattuali di curare
un paziente la cui condizione
patologica rientri nel suo normale dominio di
competenza per il solo motivo della sieropositività
del paziente stesso. Ogni operatore sanitario che non sia
in grado di provvedere
all'assistenza e alle prestazioni professionali richieste da una persona con
AIDS, dovrebbe affidare il paziente a quei medici o
servizi che sono attrezzati per provvedere a tali prestazioni; fino a quando
ciò non sia possibile il medico deve
prendersi cura del paziente al meglio delle sue capacità. Il principio della
libera scelta spettante ai medici, nel
curare o meno i pazienti, deve essere applicato in modo tale da non configurare
forme di discriminazione
nei confronti dei pazienti o gruppi di
pazienti; dovrebbe essere, altresì, coerente con le regole che presiedono alla relazione medico-paziente".
Art. 21 Documentazione clinica
Il medico
deve, nell'interesse esclusivo della persona assistita, mettere la documentazione
clinica in suo possesso a disposizione
della stessa, o dei suoi legali rappresentanti, o di medici e
istituzioni da essa indicati
per iscritto.
Commento:
In questo articolo viene sottolineata la posizione
che deve assumere il medico
laddove, nell’interesse della salute del paziente, debba mettere a disposizione
i documenti e i dati in suo possesso, sia del paziente sia dei legali
rappresentanti o, comunque, di
chiunque altro venga dal paziente indicato
per iscritto.
La lettura di questo
articolo risente oggi dell’emanazione della legge sulla riservatezza dei
dati personali, n. 675/96, che è stata un punto di svolta
relativamente alla tutela dei dati clinici.
La problematica relativa al trattamento dei dati
sensibili del paziente che in precedenza, con il codice
deontologico del 1995, era esclusivamente regolata da generali principi non
normativi di tutela della
riservatezza dei dati stessi, oggi, in presenza di un
intervento legislativo specifico è da interpretare sottolineando la posizione di titolarità
del cittadino riguardo alla propria
documentazione clinica. La disponibilità
e divulgazione di detti
elementi resta completamente a disposizione
del soggetto interessato.
Per quanto attiene alla documentazione clinica relativa a
un paziente, quindi, per
l'uso e la diffusione della stessa,
al di là della individuazione
a livello giuridico del soggetto titolare
di un diritto di
proprietà sulla medesima, nella prospettiva di un
comportamento deontologicamente corretto, è
necessario porre come criterio direttivo
l'interesse esclusivo del malato.
Non sono perciò giustificabili comportamenti volti a
ostacolare o impedire la
conoscenza da parte del paziente della documentazione relativa al suo stato di
salute. Nè simili atteggiamenti possono trovare idonea
giustificazione con il ricorso al segreto professionale o con la tutela della
riservatezza. In ordine alla
riservatezza, infatti, il paziente cui la documentazione si riferisce, o il suo
legale rappresentante può legittimamente disporre
della documentazione che riguarda il suo stato di salute
e, per ciò che attiene al segreto professionale, questo non può evidentemente
riguardare il diretto interessato il cui
stato di salute è l'oggetto
della documentazione
Art. 22 Certificazione
Il medico non
può rifiutarsi di
rilasciare direttamente
al cittadino
certificati relativi al suo stato di
salute.
Il medico, nel
redigere
certificazioni, deve valutare e attestare soltanto dati clinici che abbia direttamente constatato.
Commento:
Tra le funzioni fondamentali del medico va ricompresa quella certificativa.
Attraverso il certificato il medico
formula un'attestazione di fatti
biologici tecnicamente obiettivati.
Il certificato in taluni casi deve, peraltro, riportare anche una valutazione
del dato obiettivo constatato, valutazione che andrà svolta, a
seconda della necessità, in riferimento alla idoneità al lavoro, alla
frequenza scolastica, allo svolgimento delle attività sportive ed altri
adempimenti.
I certificati medici vanno distinti dalle prescrizioni poichè nei primi
l'elemento prevalente è quello della dichiarazione
di verifica di
determinati stati e non l'indicazione
della necessità di una
determinata terapia.
Tra i due documenti vi è comunque un medesimo nesso
concettuale costituito dal giudizio
clinico su cui si fonda sia il certificato che la prescrizione.
Per una definizione dal punto di vista
giuridico della certificazione
medica, per la determinazione
dell'efficacia probatoria della stessa e per le conseguenze che ne possono
derivare appaiono significative le massime di
sentenze che di seguito riportiam
Cass. - Sez. V, 3 luglio 1979 - "Affinchè un documento proveniente da un medico
possa qualificarsi certificato medico, ai
sensi e per gli effetti di cui
all'art. 481 C.P., è necessario che il suo contenuto rappresenti in tutto o in
parte una "certificazione", cioè che attesti fatti dei quali l'atto è
destinato a provare la verità".
Cass. - 8 ottobre 1957 - " Anche nel giudizio medico può
cogliersi la deformazione della verità che costituisce l'elemento obiettivo del
reato di cui all'art. 481 C.P.,
quando in esso sia implicita la rappresentazione non corrispondente al vero dei
fatti morbosi che ne sono il presupposto; pertanto il reato di
falsità in certificati sanitari sussiste non solo quando la falsità incida
nell'attestazione delle attività svolte in concreto dall'autore del documento,
ma anche quando essa concerna i presupposti di fatto
esplicitamente dichiarati o
implicitamente contenuti nel giudizio diagnostico
o terapeutico".
Corte dei Conti - Sezioni riunite - 11 gennaio 1993 - "La presunzione di verità
fino a querela di falso ex artt. 2699 e 2700 c.c. deve
ritenersi limitata ai fatti oggetto di
certificazione e non anche ai giudizi o
agli effetti ulteriori dei fatti stessi, con la conseguenza che, in quanto dichiarazione
di scienza, il certificato medico può
espletare la sua efficacia probatoria privilegiata anche nel processo ma
limitatamente ai fatti oggetto di
certificazioni e non anche quanto agli effetti ulteriori che non potevano
essere percepiti o previsti dall'ufficiale certificatore
al momento dell'accertamento; e, pertanto, in ordine alla
natura e ai limiti invalidanti delle infermità accertate, il certificato medico che
ha dato poi luogo a provvedimenti di
congedo o aspettativa è un semplice mezzo di prova
per vincere il quale non occorre lo strumento della querela di falso
e invece concorre con ogni altro mezzo di prova
alla formazione del convincimento del giudice."
La certificazione attestante talune infermità (sindrome ansiosa, ulcera gastrica,
distonia vegetativa ecc. ) - di per sè comportante astrattamente un giudizio di
infermità invalidante e di impedimento
delle prestazioni lavorative - deve essere valutata anche alla luce delle prove
contrarie."Cass. - Sez. VI Penale - 24 maggio
1977 e Sez. V Penale - 16 febbraio 1981 - " Il
reato di falsità ideologica in
certificazioni amministrative deve ritenersi sussistente in tutti i suoi
elementi quando il giudizio diagnostico
espresso dal medico certificante si fonda
su fatti esplicitamente dichiarati
o implicitamente contenuti nel giudizio
medesimo, che siano non rispondenti al vero e che ciò sia conosciuto da colui
che ne fa attestazione".
Essendo la veridicità requisito
sostanziale, fondamentale del certificato, possono interessare i medici, a
seconda della qualifica giuridica che
assumano nell'esercizio professionale (quale pubblico ufficiale o incaricato di un
pubblico servizio: il certificato ha natura di
pubblico atto; quale esercente un servizio di
pubblica necessità: il certificato è scrittura privata) i reati di falso
previsti negli artt. da 476
a 493 bis del codice
penale.
L'art. 22 del codice
deontologico fissa per il medico una
serie di precisi obblighi
concernenti la certificazione.
- Obbligo del rilascio del certificato su richiesta del paziente e direttamente
al paziente medesimo
Il medico non può rifiutare la
consegna diretta al paziente di un
certificato relativo al suo stato di salute
e ciò indipendentemente dal fatto
che il certificato richiesto sia uno di quelli
dovuti ai sensi delle varie convenzioni (es. di medicina
generale ) e/o previsti da precise disposizioni
di legge, o semplicemente
facoltativo, cioè destinato a un uso strettamente privato.
Il certificato è da consegnare al soggetto cui si riferisce (o al suo legale
rappresentante o a persona indicata
espressamente dal paziente) o ad altro richiedente cui la legge ne riconosca il
diritto.
Se altra persona chiede a nome del paziente la
consegna del certificato il medico deve
accertarsi che tale consegna corrisponda alla volontà del paziente.
- Obbligo della corrispondenza del certificato alle constatazioni dirette
effettuate dal medico
Il medico non può rilasciare il
certificato sulla base di quanto
riferitogli da terzi o su quanto egli non abbia constatato. Poichè
il certificato è redatto previa richiesta del paziente e può riportare sintomi
riferiti dallo stesso, non sempre obiettivabili, il
medico, nella certificazione
stessa, deve distinguere tra quanto
obiettivamente da lui riscontrato e quanto riferito.
Il certificato contiene, inoltre, un giudizio
clinico che si forma sulla base dei dati rilevati e indicati e
che si compone di diagnosi
e prognosi.
E' opportuno che il medico
giustifichi la formulazione di detto
giudizio clinico sulla base
della valutazione dei dati rilevati e di quelli
forniti dal paziente.
Il nuovo codice non esplicita più il divieto
del rilascio dei certificati di
compiacenza in quanto si è ritenuto tale divieto
implicito nell'obbligo del requisito della veridicità
che connota la certificazione e la cui inosservanza costituisce, evidentemente,
grave violazione dell'affidamento che viene riposto nella attestazione medica,
quindi della stessa credibilità
della funzione del medico.
Art 23 Cartella clinica
La cartella clinica deve essere
redatta chiaramente, con puntualità e diligenza,
nel rispetto delle regole della buona pratica clinica e contenere, oltre a ogni dato obiettivo relativo alla condizione
patologica e al suo decorso, le attività diagnostico-terapeutiche
praticate.
Commento:
Si è inserito questo articolo al fine di
contenere le frequenti carenze e le conseguenti incertezze e vertenze anche a
livello medico legale. La scelta di individuare
i contenuti essenziali che la cartella clinica deve possedere, oltre al fine di adempiere alla sua naturale funzione di
puntuale documento sulle condizioni
del paziente e sulle scelte diagnostico-terapeutiche
operate, è scaturita anche dalla volontà di
tutelare i diritti del cittadino.
La cartella clinica non può essere, infatti, considerata come un adempimento
burocratico atto a registrare meri dati obiettivi ma deve dettagliatamente
documentare le ragioni stesse delle scelte diagnostiche
e terapeutiche effettuate e ciò anche al fine di
facilitare e controllare verifiche amministrative e non ultimo di qualità.
In questa prospettiva dovrebbero essere sempre meglio seguiti i principi della
cartella clinica orientata per indirizzo diagnostico-terapeutico.
La cartella clinica è anche la sede ideale per la registrazione dell’avvenuta informazione
del paziente e della conseguente documentazione del consenso.
Per quanto riguarda la cartella clinica, una parte della giurisprudenza della
Cassazione riconosce alla stessa il possesso di tutti
i requisiti propri dell’atto pubblico. Definirla come atto
pubblico comporta una serie di conseguenze sul piano giuridico di non
lieve portata: l’applicazione degli artt. 479 e
476 del c.p. per falso ideologico e materiale nella previsione della pena più
grave; l’eventuale responsabilità per omissione di atti
d’ufficio, ex art.328 c.p., o per rivelazione di
segreto d’ufficio, ex art.326 c.p.
Art. 24 Libera scelta del medico e del luogo di cura
La libera scelta del medico e
del luogo di cura
costituisce principio fondamentale del rapporto medico-paziente.
Nell’esercizio dell’attività libero professionale svolta
presso le strutture pubbliche e private, la scelta del medico
costituisce diritto
fondamentale del cittadino.
E', pertanto, vietato qualsiasi accordo tra medici
tendente a influire sul diritto
del cittadino alla
libera scelta.
Il medico può
consigliare, ma non pretendere, che il cittadino si
rivolga a determinati presidi,
istituti o luoghi di cura.
Commento:
Il codice di
deontologia medica all’art. 24
sintetizza il contenuto dei due articoli 24 e 27 della precedente stesura. La
ratio dei due articoli era, infatti, la medesima: la necessità del rispetto
della libertà di scelta del medico, del
luogo di cura e della
correlativa esigenza di
garantire al paziente la scelta finale sui presidi,
istituti o luoghi di cura
da privilegiare per garantire la cura stessa.
L’art. 24 in sostanza afferma che il rapporto medico-cittadino rimane
sempre e comunque di
carattere fiduciario che deve sussistere, a garanzia della migliore riuscita
delle cure, tra il professionista e il proprio assistito in mancanza del quale
ben difficilmente il rapporto
potrebbe garantire risultati positivi.
Tale articolo, come anche i successivi del medesimo capo, disciplina
l'obbligo del medico al rispetto del diritto del paziente alla libera scelta del personale medico e
delle strutture cui affidare la tutela della propria salute.
Per quanto attiene alla libera scelta del medico,
questa è ribadita anche nella normativa
del Servizio Sanitario Nazionale e trova applicazione nei provvedimenti
regolamentari. Essa rappresenta un principio fondamentale ed inalienabile che
deve improntare il rapporto medico-paziente,
proprio per la natura fiduciaria che caratterizza tale rapporto.
La libertà di scelta e la natura
fiduciaria del rapporto professionista-cliente, trovano un effettivo e significativo riscontro in ambito giuridico,
nell'art.2232 c.c. che, appunto, sancisce al 1° comma
l'obbligo di "eseguire
personalmente l'incarico assunto" evidenziando, così, indirettamente,
l'aspetto fondamentale della fiducia che connota il rapporto in esame con
conseguenze notevoli anche per il diritto
(v. ad esempio le limitazioni poste dallo stesso articolo 2232 c.c. in merito
alle possibilità del professionista di far
ricorso a sostituti e/o ad ausiliari).
Il codice deontologico ribadisce come dovere comportamentale del medico il
rispetto del diritto del paziente alla
libera scelta del curante prendendo anche, molto opportunamente, in
considerazione la sostanziale disparità
che spesso connota il rapporto medico-paziente e che
può consentire al primo di
influenzare l'altro anche relativamente alla scelta di
colleghi o di strutture cui
affidarsi.
A tale riguardo viene previsto, per sancirne il divieto,
l'accordo tra due medici
volto, appunto, ad influenzare la scelta del paziente. Viene
prevista la facoltà per il medico di dare
indicazioni al paziente in merito
ai presidi, istituti o luoghi di cura
da lui reputati più idonei per le necessità del paziente stesso.
Tale facoltà trova giustificazione nella stretta connessione esistente tra i vari
interventi sanitari, rientranti in unico trattamento riferito ad uno stesso
soggetto; infatti, l'attività diagnostica
e/o terapeutica di un
sanitario può trovare implicazioni in quelle precedenti di altri,
e può determinare conseguenze sulle successive che, diversi
colleghi, si troveranno ad effettuare.
Si tratta di una facoltà che può,
inoltre, essere considerata quale manifestazione del compito del medico di agire in difesa
della salute del paziente laddove, evidentemente, le indicazioni
trovino origine nel convincimento del sanitario della sicura affidabilità delle
strutture, istituti consigliati e della loro piena rispondenza alle esigenze
dell'assistito.
Le convinzioni del medico non
possono però annullare il diritto
alla libera scelta delle strutture e dei luoghi di cura
e, anche nella fattispecie oggetto dell'articolo in esame, resta
fermo, per il medico, il
dovere, fissato al precedente art. 17, d'ordine
generale, di rispettare i diritti
fondamentali del cittadino.
Va rilevato altresì che il presente articolo considera solamente la fattispecie
in cui le indicazioni del medico
siano mosse da convinzioni di beneficialità; qualora, invece, dette indicazioni
dovessero fondarsi su diverse
finalità quali, ad esempio, benefici economici per il medico
stesso o compartecipazioni agli utili di
determinate strutture verrebbero a configurarsi violazioni di altre
norme quali quelle che sanciscono il principio dell'indipendenza
dell'esercizio professionale e la finalizzazione dello stesso alla sola tutela
della vita e della salute dei pazienti (artt.3 e 4 del codice).
Art. 25 Sfiducia del cittadino
Qualora abbia avuto prova di
sfiducia da parte della persona assistita o dei suoi legali rappresentanti, se
minore o incapace, il medico può
rinunciare all'ulteriore trattamento, purché ne dia
tempestivo avviso; deve, comunque, prestare la sua opera sino alla sostituzione
con altro collega, cui competono le informazioni
e la documentazione utili alla prosecuzione delle cure, previo consenso
scritto dell'interessato.
Commento:
L’art. 25 del testo attuale con la sostituzione del termine paziente con
quello di cittadino,
come già esplicitato in precedenza, riconosce dignità
universale al soggetto che si affida al medico e
non contiene in sé grosse modifiche
rispetto al passato. Si sottolinea semplicemente che,
in ottemperanza alle previsioni della legge 675/96, è stato inserito il
consenso scritto dell’interessato nel caso in cui ci sia una sostituzione tra
medici e quindi uno
scambio di informazioni
e documentazioni utili alla prosecuzione delle cure.
Questo articolo si basa e si incentra sull’elemento
fondamentale del rapporto fiduciario tra medico e
paziente, che può venire interrotto, laddove venga meno il principio di
correttezza nei rapporti tra due soggetti.
Così come nella precedente versione, nel nuovo articolo non viene
specificato il significato delle prove di
sfiducia che sono causa dell’interruzione del rapporto medico-paziente. In
proposito deve rinviarsi alla dottrina prevalente, facendo riferimento ai concetti
generali e alla prassi delle relazioni sociali.
Viene espresso in questo articolo, anche se in maniera
non diretta, uno dei principi informatori
dell’attività del medico,
ovvero il rispetto del rapporto di
colleganza, di correttezza tra i
colleghi che si manifesta, nello scambio doveroso di informazioni
e documentazioni, teso alla realizzazione del beneficio del paziente.
L'importanza del rapporto di
fiducia medico-paziente, viene
inquadrata, in questo articolo, dal punto di vista
del medico.
Infatti, la mancanza di tale elemento fondamentale dà al curante la facoltà di
rinunciare all'incarico o alla sua prosecuzione, venendo meno uno dei pilastri
su cui deve fondarsi il rapporto per risultare proficuo per entrambi i soggetti
coinvolti.
In caso di sfiducia dimostrata
dal paziente se al medico viene riconosciuta la facoltà di
recedere dal rapporto è però fatto obbligo allo stesso di
bilanciare detta facoltà con gli interessi del paziente e, in primis, con
quello alla tutela della salute.
La volontà di recesso, pertanto, va
comunicata con tempestività al paziente o ai suoi legali rappresentanti affinchè possano idoneamente
provvedere alla sostituzione del curante. Il medico,
fino alla sostituzione, dovrà provvedere, ove necessario, a continuare la sua
opera professionale, quindi
fornire al collega che gli subentra, tutte le informazioni
e la documentazione utili e non solo quelle strettamente necessarie, per la
prosecuzione delle cure.
In sostanza, la sfiducia dimostrata
dal paziente non può essere per il medico un
alibi per comportamenti di
rivalsa nei confronti di chi
non ha mostrato di
apprezzare la sua opera professionale e di chi
viene a sostituirlo.
Al riguardo va rammentato altresì, per ciò che attiene all'obbligo
deontologico, sancito dal presente articolo, della continuazione della
prestazione professionale fino alla sostituzione con altro collega, che il
mancato rispetto di tale
obbligo può comportare per il medico
gravi conseguenze anche d'ordine
legale, ed in particolare di natura
penale, ove la mancata prestazione realizzi gli estremi del reato di omissione
di soccorso (art.593 c.p.) o, in
caso ne sia derivato aggravamento o morte del paziente, quelli di
lesioni e omicidio.
In materia la giurisprudenza dominante appare alquanto severa nei confronti del
medico al quale viene
fatto obbligo, in via generale, di
garantire che l'ammalato, comunque, non resti senza cure.
Per ciò che attiene, poi, al dovere di
fornire al collega subentrante tutte le informazioni
utili e la documentazione, va evidenziato che tale direttiva
comportamentale va inserita in un più ampio quadro concernente il principio di
correttezza nei rapporti fra colleghi trattato, sotto
altri aspetti, dal seguente titolo IV cui si rinvia.
Va però rilevato che in tale particolare previsione, la correttezza fra
colleghi non è considerata, in via principale, quale valore a sè stante, ma solo strumentalmente, come mezzo per
garantire un'effettiva tutela della salute del paziente.
Art. 26 Soccorso d'urgenza
Il medico che
presti soccorso d'urgenza a un malato curato da altro
collega o che assista temporaneamente un paziente in assenza del curante, non
può pretendere che gli venga affidata la continuazione delle cure.
Commento:
Questo articolo costituisce una
applicazione del generale principio del rispetto del rapporto di
fiducia che deve intercorrere tra medico e
cittadino. Nel caso di specie
non esiste alcuna norma giuridica cui
fare riferimento, pertanto assume particolare rilevanza la normativa
deontologica.
In buona sostanza il medico
chiamato per necessità o urgenza a intervenire su un
paziente in cura da altro collega, non può pretendere, solo per questo, di essere
prescelto per la continuazione della cura.
A ben vedere si tratta null’altro che della applicazione
di due principi deontologici che
privilegiano il rapporto di
fiducia tra medico e paziente e di
colleganza, rapporto quest’ultimo di
correttezza tra colleghi anche al di fuori
dell’esercizio professionale.
Art. 27 Fornitura di medicinali
Il medico non
può fornire i medicinali
necessari alla cura a titolo oneroso.
E' vietata al medico ogni
forma di
prescrizione che procuri a sé o ad altri indebito lucro.
Art. 28 Comparaggio
Ogni forma di
comparaggio è vietata.
Commento:
Gli artt. 27 e 28 del codice di
deontologia medica rispondono a uno stesso principio e costituiscono aspetti similari del
rapporto tra norme penali e norme deontologiche. L’art. 102 del T.U. LL.SS. proibisce al medico,
iscritto all’albo, qualsiasi convenzione per la partecipazione agli utili di una
farmacia. Allo stesso modo l’art. 170 del T.U.LL.SS.
attribuisce rilevanza penale al cosiddetto comparaggio, cioè
il ricevere per sé o per altri denaro o altra utilità o accettarne la promessa
allo scopo di agevolare con
prescrizioni mediche o in altro modo la diffusione
di specialità medicinali
o di prodotti ad uso terapeutico.
Si è discusso sulla opportunità o meno di
inserire questi due articoli, in quanto da alcuni è stato rilevato che siamo in
presenza di obblighi di
carattere penale e di
correlative sanzioni della stessa natura. E’ prevalsa, però, l’opinione di
inserire in due specifici articoli questi divieti,
onde rimarcare in modo evidente che l’estrema gravità di questi
comportamenti non si limita soltanto alla sfera penale, ma coinvolge l’etica
stessa della medicina, costituendo una
violazione gravissima della dignità e
del decoro della professione.
CAPO III - DOVERI DEL MEDICO VERSO I MINORI, ANZIANI E I
DISABILI
Art. 29 Assistenza
Il medico deve
contribuire a proteggere il minore, l'anziano e il disabile,
in particolare quando ritenga che l'ambiente,
familiare o extrafamiliare, nel quale vivono, non sia sufficientemente
sollecito alla cura della loro salute, ovvero sia sede di
maltrattamenti, violenze o abusi sessuali, fatti salvi gli obblighi di referto
o di
denuncia all’autorità giudiziaria
nei casi specificatamente previsti dalla legge.
Il medico deve
adoperarsi, in qualsiasi circostanza, perché il minore possa fruire di quanto
necessario a un armonico sviluppo psico-fisico e
affinché allo stesso, all'anziano e al disabile
siano garantite qualità e dignità di vita,
ponendo particolare attenzione alla tutela dei diritti
degli assistiti non autosufficienti sul piano psichico e sociale, qualora vi
sia incapacità manifesta di
intendere e di
volere, ancorché non legalmente dichiarata.
Il medico, in
caso di opposizione dei legali
rappresentanti alla necessaria cura dei minori e degli incapaci, deve ricorrere
alla competente autorità giudiziaria.
Commento:
Il contenuto di questo articolo potrebbe apparire pleonastico considerato il
dovere fondamentale di
assistenza cui è tenuto qualsiasi medico nei
confronti di qualsiasi cittadino
In realtà questo articolo, proprio perché volto a sollecitare una particolare
attenzione assistenziale del medico nei
confronti di soggetti deboli, amplia
il dovere fondamentale del professionista in quanto lo connota di un
elemento di carattere solidaristico-sociale che non deve essere visto da una
prospettiva esclusivamente professionale di tipo
tecnico-medica bensì deve essere esteso
a tutti i comportamenti che possano andare anche oltre la competenza
professionale specifica.
L’art. 29 in occasione della revisione del codice di
deontologia medica è stato oggetto di un dibattito
approfondito; per alcuni l’aver
voluto sostituire il termine "impegnarsi a proteggere il minore" con
"contribuire a proteggere il minore" potrebbe aver avuto il
significato di una sorta di diminuzione
di responsabilità del medico
stesso. Nella realtà però il termine contribuire è da intendersi in senso solidaristico: al fine di
evidenziare che l’attività del medico,
finalizzata agli obiettivi sopra citati, deve inserirsi in un contesto più ampio che vede coinvolti nella tutela dei
soggetti deboli altre strutture di
carattere sociale, altri soggetti, altri operatori dall’ordinamento
stesso individuati.
Deve respingersi l’ipotesi di una deresponsabilizzazione in quanto,
oltre ad essere ampliate le fattispecie che costituiscono per il medico
motivo di intervento, è stato
volutamente esplicitato che il medico dovrà
adoperarsi in qualsiasi circostanza affinché il minore possa fruire di quanto
necessario al suo armonico sviluppo.
Nelle norme contenute nel presente articolo si rispecchia
una concezione del ruolo del medico non
ristretto al solo ambito della tutela della salute. Viene, infatti, delineata, nei confronti delle categorie più deboli, cioè
dei minori, degli anziani e dei portatori di handicap,
una funzione del medico di tutela
ben più ampia, che abbraccia, oltre alla salute, le stesse condizioni di vita, allorchè possano incidere negativamente sulla qualità e dignità
dei soggetti su indicati.
L'esercizio professionale della medicina diventa,
in questa prospettiva, l'occasione e lo strumento di
rilevazione di situazioni familiari,
sociali e/o ambientali in cui versano soggetti particolarmente deboli che,
oltre ad incidere negativamente sulla salute di
costoro, ne compromettono, come detto, la qualità e dignità di vita.
In tali ipotesi il medico deve
farsi attivo promotore di iniziative volte a rimuovere dette condizioni;
iniziative che, secondo la sua valutazione, dovranno coinvolgere la famiglia o
nei casi più gravi anche organi pubblici di
assistenza sociale o in caso di
maltrattamenti o violenza o di
opposizione dei legali rappresentanti alle cure necessarie a minori e incapaci,
anche l'autorità giudiziaria
o di polizia.
Quello fissato nell'articolo in esame è un dovere ulteriore
e diverso da quelli sanciti dalla
legge nelle ipotesi in cui questa fissa per il medico
obblighi di referto o di
denuncia.
Va sottolineato come la funzione attribuita al medico
dalle norme di questo articolo ponga
lo stesso nella delicata posizione di dover
valutare quando la situazione in cui versino determinati soggetti sia tale da
richiedere, da parte sua, oltre che la violazione del segreto professionale e
del principio di riservatezza, anche un
intervento non limitato alla sfera della salute dei soggetti medesimi, ma diretto
anche alle sfere più delicate dell'intimità familiare, con possibili
conseguenze spiacevoli d'ordine
giuridico (querele per diffamazione
ecc.); è questa una precisa scelta culturale e di
civiltà secondo principi di attiva
solidarietà cui l'esercizio della professione medica deve
conformarsi a sostegno di chi è
pressoché privo di difesa.
CAPO IV - INFORMAZIONE E CONSENSO
Art. 30 Informazione al cittadino
Il medico deve
fornire al paziente la più idonea informazione
sulla diagnosi,
sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative
diagnostico-terapeutiche
e sulle prevedibili
conseguenze delle scelte operate; il medico
nell’informarlo
dovrà tenere conto delle sue capacità di
comprensione, al fine di
promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche.
Ogni ulteriore richiesta di informazione
da parte del paziente deve essere soddisfatta.
Il medico
deve, altresì, soddisfare
le richieste di informazione
del cittadino in
tema di
prevenzione.
Le informazioni
riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione
e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando
terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di
speranza.
La documentata volontà della persona assistita di non
essere informata o
di
delegare ad altro soggetto l’informazione
deve essere rispettata.
Commento:
L’art. 30 apre una serie di articoli dedicati
agli attualissimi problemi dell’informazione
e del consenso.
Come è noto, si tratta di
argomenti di strettissima attualità
su cui è tuttora in corso un appassionato dibattito
non soltanto fra i cultori della deontologia, ma anche a livello filosofico e
politico.
Del resto sono note le polemiche, parzialmente ancora in corso, derivanti dagli
orientamenti giurisprudenziali sempre più consolidati che hanno legato le
responsabilità del medico alla
necessità dell’acquisizione del consenso del cittadino per
quanto riguarda l’attività terapeutica.
L’art. 30 obbliga il medico alla informazione
più ampia ed idonea per quanto riguarda prognosi, prospettive, eventuali
alternative diagnostiche e
terapeutiche e conseguenze delle scelte operate.
L’articolo, inoltre, riconferma il compito di
assicurare l’informazione
facendo riferimento alle capacità di
comprensione del cittadino. E’
ovvio che diversi saranno i criteri
che il medico dovrà seguire per
adeguare l’informazione
allo status del soggetto che la stessa dovrà ricevere. L’informazione,
infatti, dovrà assumere connotazioni diverse,
potrà essere fornita, se necessario, con gradualità a seconda
delle condizioni
oltre che fisiche e psicologiche anche socio-culturali del malato.
Viene anche confermata la necessità di una
particolare prudenza e l’uso di
terminologie non traumatizzanti allorchè sia
necessario informare
il cittadino su prognosi gravi o
infauste o, comunque, tali da procurare preoccupazioni
e sofferenze alla persona.
Particolarmente importante è la opportunità, in ogni
caso, di non escludere la
speranza per non lasciare solo con la propria disperazione
il cittadino malato.
L'informazione è il presupposto
indefettibile per la espressione del consenso da parte
del paziente.
Perchè l'informazione
in campo clinico risulti realmente efficace al fine
suddetto è necessario che essa venga fornita secondo modalità adeguate alla
formazione culturale, alla capacità di
comprensione e allo stato psichico del paziente.
Nel presente codice è stato operata una scelta di fondo
a favore dell'informazione
al paziente per quanto attiene alla diagnosi,
alla prognosi alle prospettive e alle conseguenze delle proposte terapeutiche,
con una significativa modifica,
rispetto al codice previgente,
a favore di un'informazione
veritiera, pur fornita con tutte le necessarie accortezze, anche d'ordine
terminologico e psicologico, riguardo a prognosi gravi o infauste.
Tale scelta è il risultato di un dibattito
approfondito che si svolge tuttora
sulla opportunità di
fornire al paziente, sempre e comunque, informazioni
veritiere sul suo stato, recependo le indicazioni
formulate in materia dal C.N.B. (documento
Informazione e consenso all'atto medico - 20
giugno 1992) ed aderendo all'orientamento prevalente in ambito sociale.
I termini della questione e dei diversi
punti di vista sono numerosi e
tutti rilevanti.
L'orientamento nell'ambito del quale vanno inquadrate le norme del presente articolo riconosce, come fondamentale, il diritto
alla verità che implica una concezione dell'uomo come responsabile delle
proprie azioni e che si configura come condizione
essenziale per l'esercizio della libertà.
Tale verità, in campo medico, non
può tradursi come semplice e fredda trasmissione di dati
clinici. Come è dato evincere dalla stessa
formulazione dell'articolo in esame, assumono particolare rilevanza le modalità
di comunicazione dell'informazione.
L'art. 30, è in linea, come detto, con le indicazioni
del C.N.B. secondo cui l'informazione
deve essere:
a) adatta al singolo paziente, in relazione alla sua cultura e alla sua
capacità di comprensione da un lato
e al suo stato psichico dall'altro;
b) corretta e completa circa la diagnosi,
le terapie, il rischio, la prognosi".
Nella sua articolazione detta norma, sinteticamente ed efficacemente, offre al
medico le chiavi per l'individuazione
della linea di comportamento più
idonea al caso specifico.
Il problema più rilevante riguarda la comunicazione di
prognosi gravi o infauste nei confronti delle quali, al di là dei
livelli culturali che contraddistinguono
i singoli malati, si registrano spesso atteggiamenti di
rifiuto, da parte degli interessati, a conoscere la verità.
La questione, quindi, si
sposta su come deve e può avvenire tale comunicazione, anche nei casi più
gravi. Ed a questo riguardo dalle norme dell'articolo
in esame è possibile trarre una serie di
criteri cui il medico può
fare riferimento per affrontare il problema, specie nei casi più difficili,
di comunicare la verità al
paziente. In particolare, secondo tali indicazioni,
il medico deve compiere uno
sforzo intellettivo per conoscere e valutare nel modo più preciso la verità da
comunicare ed i possibili livelli secondo cui ciò può
avvenire; deve attentamente valutare le condizioni
fisiche e psicologiche del paziente e le possibili conseguenze sul soggetto.
Tutto ciò presuppone l'instaurazione di un
forte e stabile rapporto medico-paziente
fondato sulla fiducia reciproca.
In tale contesto complessivo anche il problema più
grave, e cioè quello attinente al paziente che non vuole conoscere e sfugge la
verità può assumere una diversa
connotazione per cui il medico può
attuare nei confronti del malato una rivelazione progressiva del suo stato
"con un approccio graduale che tenga conto volta per volta di ciò
che il paziente desideri effettivamente sapere, ovverosia quanta parte di verità
egli sia in grado di
sopportare, mantenendo un atteggiamento il più possibile franco e
corretto" (C.N.B.).
Si tratta, per il medico, di
instaurare una comunicazione della verità nell'ambito della quale vengano
interpretate e comprese le ansie del malato con atteggiamento di
solidarietà, al fine di far
maturare nello stesso la consapevolezza e la conseguente accettazione del suo
stato.
Come evidenziato dal C.N.B.
"attraverso la somministrazione delle informazioni
si profila il ritorno della funzione del medico come
elemento decisivo per la condotta del malato; "infatti "nella
amministrazione delle informazioni
il medico ha ampi spazi di
intervento" in particolare nei casi di
situazioni inguaribili egli "dovrebbe costruire le alternative possibili e
dare informazioni
in modo che il paziente possa scegliere quella che più gli si adatta".
Tali accorgimenti nella trasmissione delle informazioni
evidenziano come i comportamenti indicati
dal codice siano cosa diversa
dalla mera e neutra sottoposizione al paziente di tutta
l'informazione disponibile,
senza alcuna selezione o adattamento al caso specifico, come in alcuni Paesi
(v. USA) può accadere, ove risultino prevalenti preoccupazioni di natura
contrattualistica legate alla eventuale
responsabilità, che può derivare in sistemi assicurativi privati, da una non
completa informazione.
All'articolo in esame sottostanno diverse
preoccupazioni tra cui quella, non secondaria, di
rendere possibile attraverso l'informazione l'adesione del malato ad interventi terapeutici
particolarmente pesanti in termini di
sofferenza fisica e psicologica.
Art. 31 Informazione a terzi
L'informazione
a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente,
fatto salvo quanto previsto all'art. 9 allorchè sia
in grave pericolo la salute o la vita di altri.
In caso di
paziente ricoverato il medico deve
raccogliere gli eventuali nominativi delle persone
preliminarmente indicate
dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.
Commento:
L’art. 31 deve leggersi alla luce della recente formulazione dell’art. 9
sul segreto professionale che, come già detto, è stato rielaborato secondo i
principi normativi a tutela dei dati personali.
L’art. 31 sottolinea che l’informazione
a terzi è ammessa soltanto sulla base di un
consenso espresso esplicitamente dal paziente, fatto salvo quanto costituisce
giusta causa di rivelazione al di fuori
delle previsioni di legge,
che all’art. 9 sono chiaramente esplicitate nei punti a), b) e c).
Il combinato disposto dell’art. 31 e
dell’art. 9 è da ricondursi alla previsione della legge n. 675 del 1996. In
particolare è da sottolineare il punto c), laddove si
afferma che l’urgenza di
salvaguardare la vita o la salute di terzi,
anche nel caso di diniego
dell’interessato consente, previa autorizzazione del Garante per la protezione
dei dati personali, di
procedere alla informativa.
In sede di dibattito
si è posto il problema della tempestività che l’autorizzazione richiesta al
Garante dovrebbe evidentemente avere per consentire di
arrivare a un concreto risultato di
salvaguardia del terzo.
Come è stato già precisato, gli attuali mezzi di
comunicazione consentono un rapporto immediato con
il Garante per la protezione dei dati personali, ferma restando
l’autorizzazione in via generale emanata dall’autorità Garante stessa con il
provvedimento n. 2 del 1997.
L’art. 31 che nel 1° comma affronta la questione in termini generali, nel 2°
comma più specificamente intende dare una guida al medico dipendente
che quotidianamente si trova a
dover affrontare il problema dell’informazione
del paziente ricoverato.
In questo caso sarà lo stesso medico a
raccogliere i nominativi delle persone che il paziente
ha indicato quali atte a
ricevere la comunicazione sui dati relativi alla propria salute, e ai dati
sensibili secondo l’art. 23 della legge 675/96.
Art. 32Acquisizione del
consenso
Il medico non
deve intraprendere attività diagnostica
e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato
del paziente.
Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge
e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche
e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla
integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà della persona, è
integrativo e non sostitutivo del processo informativo
di cui
all'art. 30.
Il procedimento diagnostico
e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per
l'incolumità della persona, devono essere intrapresi solo in caso di
estrema necessità e previa informazione
sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione
del consenso.
In ogni caso, in presenza di
documentato rifiuto di
persona capace di
intendere e di
volere, il medico deve
desistere dai conseguenti atti diagnostici
e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico
contro la volontà della persona, ove non ricorrano le condizioni di cui al
successivo articolo 34.
Commento:
Il titolo dell’art. 32 è modificato
rispetto a quello della precedente stesura del codice che
si riferiva al consenso informato.
Il titolo dell’attuale art. 32, "Acquisizione del consenso", intende
porre l’attenzione sulla necessità di
un’acquisizione effettiva da parte del medico del
consenso del paziente.
Non si tratta, ovviamente, di una
duplicazione del meccanismo di acquisizione e di informazione
previsto dal precedente art. 30, ma di
ulteriori norme di
garanzia nel rispetto della libertà del cittadino per
quanto riguarda la tutela della propria salute.
In sostanza - laddove il cittadino e il
medico sono di fronte
a prestazioni diagnostiche e
terapeutiche di particolare complessità
che possono portare conseguenze importanti sulla integrità
fisica del paziente - è necessaria l’acquisizione in forma scritta del consenso
del soggetto passivo. L’intenzione del codice non
è tanto quella di
prevedere la sottoscrizione di
formulari e di moduli predisposti,
quasi ad integrare un ulteriore passaggio burocratico nella vita del medico,
bensì quella di garantire l’effettività
e la completezza dell’informazione
che permetta al cittadino
l’espressione di un consenso informato
nel senso più pieno del termine.
E’ da sottolineare in sede di
commento un’errata corrige al testo del codice: il
4° capoverso dell’art. 32 "…ove non ricorrano le condizioni di cui al
successivo art. 34" è sostituito con "… di cui al
successivo art. 78" . E’ ovvio che il legislatore deontologico intende
fare riferimento alle normative particolari sui trattamenti sanitari
obbligatori disciplinati appunto
dall’art. 78 e non dall’art. 34.
Il consenso è considerato anche dalle norme di questo articolo, così come in campo giuridico,
come fondamento di
legittimazione dell'atto medico.
Riguardo ad ogni intervento sanitario, pertanto, la manifestazione di
volontà del paziente non può essere surrogata nè disattesa,
anche se per fini benefici.
Tale impostazione deriva da principi costituzionalmente sanciti di inviolabilità
della libertà personale che nel riconoscimento del diritto
alla salute si traduce in una pretesa, giuridicamente
tutelata, di autodeterminazione del
soggetto e di garanzia da ogni
interferenza illegittima.
In particolare, così come evidenziato dal Comitato
Nazionale di Bioetica nel documento
"Informazione e consenso all'atto medico",
dal disposto degli artt. 13 e 39 della Costituzione "discende
che al centro dell'attività medico-chirurgica si
colloca il principio del consenso, il quale esprime una scelta di valore
nel modo di concepire il rapporto
tra medico e paziente, nel senso
che detto rapporto appare fondato prima sui diritti
del paziente che sui doveri del medico. Sicchè sono da ritenere illegittimi i trattamenti sanitari
extra-consensuali, non sussistendo un "dovere di
curarsi" se non nei definiti limiti di cui
l'art.32 cpv.2 Cost."
E' da precisare, tuttavia, che anche il principio del consenso incontra dei
confini, in quanto l'intervento risulta, comunque,
illecito quando supera i limiti della salvaguardia della
vita, della salute, dell'integrità fisica, nonchè
della dignità umana.
Va rammentato che affinchè il consenso possa ritenersi valido è necessario che sia espresso
personalmente dall'interessato, sia specifico per ogni trattamento e sia
consapevole.
Per quanto attiene al primo requisito con riferimento a tale fattispecie
specifica, si afferma che qualora non vi siano pericoli di gravi,
potenziali danni, il medico può
attendere che il paziente riacquisti la capacità di
esprimere il proprio volere. Quando, invece, il trattamento risulti
urgente per scongiurare rischi di
nocumento, il medico è
obbligato ad intervenire, indipendentemente
da quanto al riguardo possano esprimere i prossimi congiunti, potendosi
configurare, in caso di suo
mancato intervento, responsabilità sia civili che penali.
Riguardo all'estensione dell'ambito per il quale può ritenersi validamente
espresso il consenso, questa va valutata in relazione alla
tipologia del trattamento sanitario che viene preso in considerazione nonchè in relazione alle modalità secondo cui il consenso è
stato espresso.
In via generale laddove il trattamento risulti
costituito da un complesso di
interventi non appare necessario che il consenso venga rinnovato per ogni
singolo intervento. Laddove però, come espressamente indicato
nel 2 comma dell'articolo in esame, le singole prestazioni diagnostiche
o terapeutiche risultino connotate da particolarità
che possano avere conseguenze sulla integrità fisica, il consenso dovrà essere
specifico e, a riprova di ciò,
adeguatamente espresso in forma scritta.
Riguardo alla formalizzazione del consenso va rilevato che, attualmente,
soprattutto al fine di
prevenire contenziosi d'ordine
legale, si registra la fioritura di una
modulistica alquanto dettagliata nella elencazione dei vari interventi di cui si
compone il trattamento, volta ad evitare contestazione sulla esaustività del consenso prestato. Va però rammentato che
non sono la formulazione e la sottoscrizione del modulario le
condizioni che effettivamente
esentano il medico da eventuali
responsabilità giuridiche e disciplinari
quanto, piuttosto, la reale opera di informazione
del paziente, secondo le indicazioni
del precedente art. 30 e la concessione da parte dell’interessato del
necessario consenso informato.
Viene così in rilievo l'ultimo requisito, che deve connotare il consenso e cioè la consapevolezza che non può risolversi evidentemente
in un dato meramente formale e per il quale è necessaria l'effettiva attuazione
delle indicazioni concernenti la
corretta informazione
del paziente.
Il difetto di
consenso, quale presupposto imprescindibile
delle prestazioni mediche,
rappresenta, in ambito giurisprudenziale, un osservatorio privilegiato della evoluzione dell'ordinamento
giuridico nel senso di una
sempre maggiore e prevalente tutela del diritto
della persona alle scelte, che riguardano valori fondamentali di
stretta attinenza personale quali la integrità fisica, la salute e la qualità di vita.
Con particolare riferimento ai casi di danni
alla persona derivanti da interventi medici
privi del necessario, preventivo consenso, effettivamente informato,
dei diretti interessati, va
evidenziato come, in ambito penale si è registrata la nascita di un
orientamento giurisprudenziale assai severo. Tale orientamento, proprio dalla adesione alla dottrina del consenso informato,
traduce l'omissione di detto
consenso in termini di
elemento psicologico del reato di tipo
doloso, modificando la riferibilità del danno da colposa (come era nella tradizione
nettamente prevalente) in dolosa. Va rammentato poi che con la sentenza
26/6/91, ormai famosa, della Corte di assise d'appello di
Firenze, la responsabilità della morte del paziente sottoposto ad intervento
chirurgico per il quale era stato negato il consenso dall'interessato, è stata
addebitata al chirurgo a titolo di omicidio
preterintenzionale come ulteriore conseguenza del comportamento dello stesso
che già configurava il reato di
lesioni personali volontarie.
Con riguardo a tali addebiti risultano particolarmente
illuminanti alcuni passi della sentenza della Cass. Sez.
V penale n. 699 del 21.4.1992, confermativa della sentenza della Corte di assise di
appello di Firenze, allorchè si puntualizza che "se il trattamento,
eseguito a scopo non illecito, abbia esito sfavorevole, si deve, pur sempre, distinguere
l'ipotesi in cui esso sia consentito dall'ipotesi in cui il consenso invece non
sia prestato. E si deve ritenere che se il trattamento non consentito ha uno scopo terapeutico e l'esito sia favorevole, il reato di
lesioni, comunque, sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno
di privilegiare il proprio stato
attuale (art.32, comma secondo, Cost.) e che, a fortiori,
il reato sussiste ove l'esito sia sfavorevole."
Come efficacemente evidenziato da parte della dottrina medico-legale, si
può ipotizzare una sorta di
graduazione di reati nel caso in cui
l'atto medico chirurgico venga
compiuto senza il consenso del paziente laddove non ricorra
un'improcrastinabile urgenza:
- violenza privata, se l'atto medico
imposto al paziente non produce patologie permanenti;
- lesione personale volontaria, se l’atto medico
determina una condizione
lesiva dell’integrità psico-fisica della persona;
- omicidio preterintenzionale, se
provoca la morte del paziente.
La rilevanza del consenso assume poi una particolare connotazione con
riferimento alla responsabilità civile nelle "attività mediche non
correlate a patologie intese in senso proprio", quali la chirurgia
estetica e la odontoprotesistica.
Rispetto a tali attività, anche in relazione alla
particolarità che le contraddistingue
e che attiene all'importanza, nel loro svolgimento, del conseguimento di un
determinato risultato, l'informazione
dettagliata e chiara sui rischi di
complicazioni e insuccessi al fine della formazione di un
consenso effettivamente consapevole, assume incidenza anche sulla stessa
legittimità contrattuale.
Nel penultimo comma dell'articolo in esame viene presa
in considerazione la fattispecie particolare di
trattamenti diagnostici o terapeutici
"che possano comportare grave rischio per l'incolumità del paziente."
In tali ipotesi l'indicazione
deontologica si compone di due
elementi essenziali:
1) effettiva necessità di tali
trattamenti per il caso specifico;
2) informazione
dettagliata sulle possibili conseguenze per la formazione e manifestazione di un consenso
che sia effettivamente valido, quindi
esplicito e specifico, e che si ritiene opportuno sia documentato.
L'ultimo comma sancisce un divieto
esplicito per il medico di
compiere qualsiasi atto diagnostico
e curativo "in presenza di un
esplicito rifiuto del paziente capace di
intendere e volere".
Riguardo a tale specifica fattispecie va segnalata la problematica relativa
all'ipotesi in cui il rifiuto sia stato espresso in epoca antecedente (direttive
anticipate) mentre successivamente l'interessato non sia più capace di
manifestare la propria volontà.
In tale ipotesi vengono a confrontarsi due opposte opinioni.
Per alcuni, infatti, resta valida la volontà espressa in precedenza poichè l'incapacità successivamente
intervenuta non può far presumere revocato quanto antecedentemente manifestato,
come del resto raccomanda la Convenzione Europea di
Bioetica.
Per altri, invece, ricorrerebbe lo stato di
necessità e, in questo caso, il medico
avrebbe un vero e proprio obbligo di
intervenire comunque. A tale riguardo va segnalato quanto espresso dal C.N.B. secondo il quale "sembra innanzitutto opportuno
che si faccia sempre una debita distinzione
fra la volontà manifestata in astratto dal malato e l'eventuale volontà
manifestata, in concreto, su una determinata pratica diagnostica
e terapeutica, non potendo evidentemente la prima aver
forza giuridica tale da impedire il
trattamento sanitario. Così pure occorre fare riferimento al problema
dell'eventuale divario fra effettive
intenzioni del malato e realtà della situazione in cui esso si trova, giacchè tale divario
può legittimare interventi terapeutici non rientranti nella sfera intenzionale
del soggetto.".
Opportunamente, infine, nell'ultimo comma dell'articolo in esame si distinguono
nell'ambito dei casi di
rifiuto esplicito dei pazienti a trattamenti diagnostici
o terapeutici le ipotesi disciplinate
al successivo art. 78, in cui, invece, detti trattamenti siano previsti per
legge come obbligatori.
Art. 33 Consenso del legale rappresentante
Allorché si tratti
di minore,
di
interdetto o di
inabilitato, il consenso agli interventi diagnostici
e terapeutici, nonché al trattamento dei dati sensibili, deve essere espresso
dal rappresentante legale.
In caso di opposizione da parte del
rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile
a favore di minori
o di
incapaci, il medico è
tenuto a informare
l'autorità giudiziaria.
Commento:
L’art. 33 è rimasto
sostanzialmente immutato rispetto al testo del 1995, fatta salva la
riconduzione nell’ambito della rappresentanza legale della necessità del
consenso espresso da rappresentanti legali, non solo per gli interventi diagnostico-terapeutici
ma anche per il trattamento dei dati sensibili, concernente
cioè la salute e la sessualità (Legge 675/96).
Con riferimento ai casi in cui chi abbisogna di
trattamento sanitario sia minore o legalmente incapace, il codice di
deontologia, attenendosi ai criteri operanti in ambito giuridico, individua
nei rappresentanti legali di tali
pazienti la competenza ad esprimere il necessario consenso.
Ove detti rappresentanti si oppongano a trattamenti "necessari e indifferibili
", il medico deve informare
l'autorità giudiziaria, secondo quanto
riscontrabile anche nelle fattispecie giuridiche disciplinate
dagli artt.330-333-336-384 c.c.
La formulazione di tale
comma, anche rapportata all'ultimo comma dell'art.29, non dà una soluzione
espressa al caso in cui, in mancanza del consenso dei legali rappresentanti, la
situazione in cui versi il minore o incapace sia di tale
urgenza da non essere compatibile con i tempi necessari al ricorso all'autorità
giudiziaria.
Nel caso di specie, comunque, in ambito giuridico
l'intervento del medico
senza il richiesto consenso sarebbe giustificato ricorrendo la scriminante dello stato di
necessità, così pure in ambito deontologico si deve plausibilmente pervenire ad
analoga conclusione.
Con riferimento specifico alla problematica del consenso in pediatria,
appare poi opportuno accennare alla possibilità di
fornire l'informazione
ed acquisire il consenso direttamente
nei confronti dei cosiddetti "grandi
minori", cioè di quei
minori che abbiano acquisito una capacità naturale in tal senso.
In verità, il vigente ordinamento
giuridico italiano, proprio in relazione alla capacità giuridica di
esprimere consenso da parte dei grandi minori
per determinati atti medici
(come per il prelievo del sangue) si esprime in senso limitativo.
Va, comunque, evidenziato che per altre fattispecie
sia la giurisprudenza che il legislatore hanno direttamente
preso in considerazione tale categoria di
minori, legittimandone l'esercizio diretto di taluni
diritti.
La problematica in esame risulta comunque fornita di
rilevanza anche dal punto di vista
etico; di ciò si ha una conferma
anche nel fatto che in taluni codici
deontologici di altri Paesi (v. Olanda,
Portogallo, Francia), viene data la possibilità al minore e all'incapace, ove
ritenuti in grado di
esprimere un valido consenso in quanto in possesso di idonea
capacità in tal senso, di
decidere in merito ai trattamenti sanitari che li riguardano.
Nel codice italiano non sono
contenute analoghe previsioni.
Va segnalato, tuttavia, che il problema è stato affrontato anche dal C.N.B. che ha efficacemente sottolineato
il compito del medico di "child advocacy", che può
richiedere "il prendere posizioni che non sono sempre quelle dei genitori,
delle famiglie, il decidere talvolta in contrasto con le loro scelte, manifeste
o sottintese". Speciali e talora molto grandi
possono essere le responsabilità morali, umane, legali, che in certe situazioni
si trova ad assumere. E giustamente è stato detto che
in tali situazioni non gli bastano i "disincantati
suggerimenti medico legali".
Art. 34 Autonomia del cittadino
Il medico deve
attenersi, nel rispetto della dignità,
della libertà e dell’indipendenza
professionale, alla volontà di
curarsi, liberamente espressa dalla persona.
Il medico, se
il paziente non è in grado di
esprimere la propria volontà in caso di grave
pericolo di vita,
non può non tenere conto di quanto
precedentemente manifestato dallo stesso.
Il medico ha
l’obbligo di dare informazioni
al minore e di tenere
conto della sua volontà, compatibilmente con l’età e con la capacità di
comprensione, fermo restando il rispetto dei diritti
del legale rappresentante; analogamente deve comportarsi di fronte
a un maggiorenne infermo di mente.
Commento:
Questo articolo innovativo, nei
confronti del testo del precedente codice,
sottolinea la necessità del rispetto da parte del medico
della volontà chiaramente espressa dal soggetto circa le proprie scelte in ordine alla
tutela della propria salute.
Il medico, quindi, in presenza di
esplicita volontà del soggetto è tenuto ad attenervisi, sempre che questo non
contrasti con i principi dell’indipendenza
e della dignità professionale.
Il medico, nel caso in cui il
paziente non sia in grado di
esprimere la propria volontà, dovrà tenere conto di quanto
precedentemente manifestato dallo stesso, ciò in
aderenza a quanto espresso nella Convenzione europea di
bioetica del 1997.
Questo principio è in linea con le recenti tendenze normative che hanno portato
anche in Italia alla legge sui trapianti di organo
(legge 1 aprile 1999 n. 91) nella quale è espresso il principio del silenzio
assenso.
L’ultimo comma nel riprendere concetti già contenuti in articoli precedenti sottolinea la necessità che il medico,
nella sua attività di informazione,
tenga conto delle capacità di
comprensione legate all’età, alle condizioni
generali del soggetto minore o infermo di mente
maggiorenne.
Art. 35 Assistenza d'urgenza
Allorché sussistano
condizioni di
urgenza e in caso di
pericolo per la vita di una
persona, che non possa esprimere, al momento, volontà contraria, il medico deve
prestare l'assistenza e le cure indispensabili.
Commento:
Tale norma può considerarsi di
completamento e di
chiusura del capo relativo alla informazione
e al consenso del paziente.
In essa, infatti, viene esplicitamente previsto il
dovere del medico di
intervenire anche in assenza del consenso dell'interessato che versi in stato di
incapacità a manifestare la propria volontà, ove il trattamento rivesta
caratteri di improcrastinabile
necessità e vi sia pericolo della vita.
Nel caso di specie, come già indicato in
sede di commento del precedente
art.31, il medico ha un vero obbligo
giuridico di effettuare i necessari trattamenti: l'omissione sarebbe
fonte di gravi responsabilità
civili e penali.
E' opportuno rammentare che, comunque, per la
legittimità dell'intervento medico
senza il necessario consenso devono ricorrere entrambe le condizioni
su indicate (necessità e
urgenza implicanti gravi rischi per la salute o di vita e
incapacità del paziente ad esprimere consenso).
Pertanto, nella fattispecie in cui l'incapacità dell'assistito sia solo
momentanea e l'intervento non rivesta caratteri di indifferibilità,
il medico dovrà rinviare il
trattamento.
Va rilevato, riguardo a tali fattispecie, che in ambito giurisprudenziale non viene riconosciuta alcuna validità al
cosiddetto consenso presunto del quale, tra l'altro, parte della dottrina ha
evidenziato l'equivocità. A volte, viene indicato
come sinonimo di consenso implicito;
altre come "consenso non necessario, che in mancanza di quello
reale si darebbe presunto nella supposizione che il paziente avrebbe consentito
se lo avesse potuto"; altre ancora, con una caratterizzazione teleologica
per cui, secondo alcuni, si può parlare di
consenso presunto in quanto il medico
agisce nell'interesse del paziente.
CAPO V - ASSISTENZA AI MALATI INGUARIBILI
Art. 36 Eutanasia
Il medico,
anche su richiesta del malato, non deve effettuare né
favorire trattamenti diretti a
provocarne la morte.
Commento:
Il Capo V del nuovo codice di
deontologia medica dedicato
all’assistenza dei malati inguaribili si apre con l’art. 36,
volto specificamente al tema dell’eutanasia. Il problema estremamente delicato è stato impostato in modo lievemente differente
dalla precedente stesura del codice.
L’attuale stesura del testo art. 36, particolarmente stringata, mira
esplicitamente e direttamente
a ribadire, in maniera inequivoca, il divieto
per il medico di
effettuare o favorire trattamenti diretti a
provocare la morte del malato.
Si intende esplicitare il divieto
per il medico, non solo, di
effettuare trattamenti sul paziente volti a provocare la morte, ma anche il divieto di
favorire, attraverso comportamenti vari, anche semplicemente indiretti,
la morte del paziente provocata da lui stesso o da altri.
E' evidente che una tale norma richiede un approfondimento
sia su cosa si debba intendere per eutanasia, sia sul compito del medico di fronte
a situazioni di
patologie incurabili, sia, infine, sulla relazione fra tale compito e
l'autodeterminazione degli assistiti in merito alla propria vita.
Attualmente, secondo le norme vigenti, nei casi di
eutanasia attiva su persona consenziente si ha la realizzazione della ipotesi di reato di omicidio di cui
all'art.579 c.p.
Secondo la previsione di tale
articolo, però, si procede all'applicazione delle disposizioni
relative all'omicidio
volontario, nel caso in cui il fatto sia commesso "contro persona inferma di mente,
o che si trovi in condizioni di
deficienza psichica per un'altra infermità".
Come è noto, in alcuni Stati, quali l'Olanda, già da qualche anno, pur non
essendo pervenuti ad un riconoscimento della legittimità dell’eutanasia
volontaria, che in teoria è perseguibile penalmente, si è dettata una
regolamentazione delle modalità e delle procedure secondo cui la stessa può
essere attuata, nella forma di suicidio
assistito, da parte di un medico.
Tutto ciò nel nostro Paese non è accettato nè a
livello giuridico, nè
a livello etico dal C.N.B. e neanche sul piano della
deontologia medica.
Il codice ha anche tenuto
presente il diritto del malato
terminale a non essere oggetto di
terapie dolorose ed inutili, di
decidere consapevolmente in merito ai trattamenti cui sottoporsi ed alla
qualità dell'ultimo tratto della sua vita.
Tutto ciò secondo un indirizzo per cui il medico,
attraverso il rispetto e la tutela di tali diritti
del malato, diviene un soggetto
centrale "per la promozione della dignità
del paziente terminale", per l'affermazione di una diversa
"cultura della morte e del morire", mutuando espressioni
significative del documento del C.N.B.
Ed è proprio secondo tale prospettiva che la posizione del codice è
nettamente negativa nei confronti dell'eutanasia.
L'accettazione dell'eutanasia, infatti, oltre che al rispetto della volontà del
malato, è spesso il portato di una
visione della vita secondo cui questa sia da
considerare senza valore se gravata di difficoltà
o sofferenza, o se privata dell'autonomia, intesa come autosufficienza, o
dell'efficienza in senso produttivistico.
Nella prospettiva, poi, dell'utilitarismo sociale l'eutanasia in alcuni Paesi
trova giustificazione nella opportunità di
impiegare risorse economiche solo nella cura di malati
che per età e per tipo di
patologia possano avere un recupero in termini di
produttività.
Art. 37 Assistenza al malato inguaribile
In caso di
malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve
limitare la sua opera all'assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare
inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per
quanto possibile, della qualità di vita.
In caso di compromissione dello stato di
coscienza, il medico deve
proseguire nella terapia di
sostegno vitale finchè ritenuta ragionevolmente
utile.
Commento:
Questo articolo in connessione
con l’art. 14 "accanimento diagnostico-terapeutico"
affronta il delicato tema dell’assistenza al malato inguaribile. Si tratta di una
serie di indicazioni
fornite al medico riguardanti
l’atteggiamento che lo stesso deve osservare nel momento in cui si trova di fronte
a malattie in fase terminale.
La correzione del titolo che nel vecchio codice era
"accertamento della morte" è giustificata dalla scelta di inserire
l’ultimo comma che recita: "Il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino
a quando non sia accertata la perdita
irreversibile di tutte le funzioni
dell’encefalo" nell’articolo successivo, laddove si tratta di
prelievo di parti di cadavere.
Questo articolo riguarda l’esercizio professionale proprio del medico
ovvero non limitato all’applicazione delle sole competenze
tecniche, bensì allargato all’elemento umano, etico-deontologico.
Si fa riferimento ad una assistenza di tipo
morale, a una scelta terapeutica che attende alla guarigione del paziente in
considerazione della situazione terminale dello stesso, ma che comunque è atta
a rendere l’ultima parte della vita degna di essere
vissuta.
Le norme di questo
articolo individuano
i comportamenti pratici in cui devono tradursi i principi informatori
dell'attività medica di fronte
ai malati terminali e alla morte.
Nel primo comma, sulla scia di quanto
già espresso agli artt. 14 e 20, al medico che
si trovi a prestare la propria opera nei confronti di un malato
incurabile, in fase terminale, viene, preliminarmente, indicato
come presupposto fondamentale ed imprescindibile la
conoscenza della volontà del paziente sugli interventi terapeutici praticabili.
Fermo il divieto di accanimento
terapeutico, individuato all'art.14, il
medico nel rispetto di detta
volontà dovrà, pertanto, adoperarsi nella effettuazione di
quell'insieme di trattamenti denominati
cure palliative.
L'importanza di tali trattamenti viene rilevata nello specifico documento del C.N.B. ove, appunto, si afferma che "le cure
palliative costituiscono una risposta adeguata al bisogno di
assistenza dei malati inguaribili. (omissis)"
"Il malato inguaribile proprio per la sua condizione di
sofferenza ha bisogno di
continue cure finalizzate non a prolungare ad ogni costo e con ogni mezzo la
vita, bensì a migliorarne la qualità: attenzioni rivolte all'assistenza
psicologica al paziente ed alla famiglia, al sostegno spirituale, al
trattamento dei sintomi, alla terapia del dolore".
Particolarmente efficace risulta, poi, la distinzione
operata nel medesimo documento, che è la stessa fatta propria dal codice
deontologico, tra cure palliative e accanimento terapeutico, che viene definito quale "segno di una medicina
che ha perso il vero obiettivo della cura: una medicina
che non si rivolge più alla persona malata, ma alla malattia e che avverte la
morte come una sconfitta e non come evento naturale ed inevitabile. Le cure
palliative, al contrario, danno sostegno e significato all'accompagnamento del
morente e sono espressione di una medicina
che si ricolloca al servizio della persona malata."
Le cure palliative sono, inoltre, considerate il più efficace antidoto alla
richiesta di eutanasia che spesso è una fuga da una situazione
esistenziale umanamente intollerabile che può essere ovviata solo da una diversa
qualità dell'assistenza al morente, non burocratica ed impersonale, ma in cui
siano effettivamente create le condizioni
per morire con dignità.
Nel secondo comma viene affrontato il problema del
sostegno vitale ai malati con compromissione dello
stato di coscienza, lasciando
sostanzialmente al medico la
scelta di protrarre le terapie di
sostegno vitale.
E' evidente che nella categoria di tali
malati vanno ricomprese diverse
tipologie di alterazioni di stati di coscienza
più o meno gravi e dei quali può non essere possibile la formulazione di
prognosi certa. In questi casi il medico è
posto davanti a pesanti interrogativi sulle scelte da operare in merito alle
terapie di sopravvivenza di
pazienti interessati da tali situazioni.
Il codice non opera,
ovviamente, al riguardo alcuna classificazione circa l’alterazione degli stati di
coscienza dettando un principio di ordine
generale che fissa nella utilità, da intendersi ai fini di una
possibile ripresa, il criterio cui il medico, in
particolare il rianimatore, deve attenersi nella
scelta del proseguimento dell’assistenza.
Appare questa una scelta di grande
equilibrio, soprattutto con riferimento a situazioni enormemente complesse, nei
riguardi delle quali è in corso
un ampio dibattito in campo sia
scientifico che etico. Per queste ragioni si è ritenuto opportuno lasciare al
giudizio del medico,
secondo le conoscenze offertegli dalla scienza e le considerazioni d'ordine
morale che derivano anche da dette conoscenze, l’utilità del mantenimento delle
terapie di
sostegno vitale.
CAPO VI - TRAPIANTI
Art. 38 Prelievo di parti di cadavere
Il prelievo di parti di
cadavere a scopo di
trapianto terapeutico può essere effettuato solo nelle
condizioni e
nei modi
previsti dalle leggi in vigore.
Il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la perdita
irreversibile di tutte
le funzioni dell'encefalo.
Commento:
Il capo VI del codice di
deontologia medica è composto da due articoli che riguardano entrambi la materia dei
trapianti. L’art. 38 fa riferimento al prelievo di parti di
cadavere e l’art. 39 al "Prelievo di organi
e tessuti da persona vivente".
E’ subito da notare che la materia ha trovato una sua nuova regolamentazione
legislativa successivamente alla redazione del codice di
deontologia attraverso la legge 1° aprile 1999 n. 91 recante "Disposizioni
in materia di prelievi e di
trattamenti di organi e di
tessuti". Tale normativa, che avrà la sua piena attuazione dopo
l’approvazione dei decreti cui il Ministro è delegato, apre lo spazio per una
vera e propria rivoluzione nel campo dei trapianti e in materia di
prelievo di parti di cadavere.
La modificazione più importante
è quella contenuta nell’art. 4 della nuova legge che dà fondamentale valore
alla dichiarazione di
volontà in ordine alla donazione di organi
e di tessuti del proprio corpo
successivamente alla morte.
La normativa ha previsto che tutti i cittadini, al
compimento della maggiore età, siano chiamati a dichiarare
la propria volontà in ordine alla
donazione di organi e di
tessuti successivamente alla morte e che tale manifestazione di
volontà, in senso ovviamente positivo o negativo, deve essere assolutamente
rispettata.
La normativa prevede, inoltre, che la mancanza di dichiarazione
di volontà è considerata quale
assenso alla donazione.
La nuova legge è il frutto di una modificata
concezione dei trapianti nel senso estensivo, in quanto
ormai la società civile ne riconosce l’alto valore morale con l’intento di
favorire la crescita di una
vera e propria cultura in materia anche per rendere prevalente l’interesse dei
malati rispetto ad un astratto concetto di
"integrità del cadavere".
L’accertamento e la definizione della morte sono chiaramente stabiliti dalla
legge 29 dicembre 1993 n. 578 e dal
D.M. 22 agosto 1994 n. 582. Ne emerge un concetto
unitario di morte identificata
nella cessazione irreversibile di tutte
le funzioni dell’encefalo, sia in condizione di
arresto cardiaco che di
respirazione assistita.
In ogni caso l’accertamento della morte deve essere attuato con il rispetto di
precise modalità che, nell’eventualità di morte
encefalica, prevedano anche un congruo periodo di
osservazione.
Art. 39 Prelievo di organi e tessuti da persona vivente
Il prelievo di organi
e tessuti da persona vivente è consentito solo se diretto a
fini diagnostici,
terapeutici o di
ricerca scientifica e se non produttivo di
menomazioni permanenti dell'integrità fisica o psichica del donatore, fatte
salve le previsioni normative in materia.
Il prelievo non può essere effettuato per fini di
commercio e di lucro
e presuppone l'informazione
e il consenso scritto del donatore o dei suoi legali rappresentanti.
Commento:
L’art. 39 è identico alla
formulazione del 1995, tranne nella scelta di
sostituire il termine "soggetto vivente" in "persona
vivente" e di
eliminare gli ultimi due commi che, riguardando temi esplicitamente disciplinati
dalla legge, si è ritenuto di non
riproporre. E’ da ricordare, infatti, che la Commissione, che ha lavorato alla
stesura dell’attuale codice di
deontologia medica, operò
tale scelta allorchè ritenne di
evitare all’interno dell’articolato codicistico il
riferimento a disposizioni di legge.
In materia di prelievo di
tessuti e organi da soggetti viventi, vengono in rilievo fondamentalmente due
ordini di
preoccupazioni, di natura
etica e giuridica, che trovano
riscontro, come dimostra
il presente articolo, anche in ambito deontologico. Va innanzi tutto
considerata la necessità che la donazione non implichi lesioni alla integrità fisica o psichica del donatore, così come
sancito anche dalla norma giuridica
posta dall'art. 5 c.c., trattandosi come è noto, nel caso dell'integrità
psico-fisica, di bene non disponibile.
In tale fattispecie, pertanto, va osservato un principio di equilibrio
tra l'interesse alla salute del ricevente e quello analogo del donatore che, se
pur per fini nobilissimi, non può operare in modo da ledere irrimediabilmente
la sfera della sua salute, tranne che in ipotesi espressamente previste e disciplinate
dalla legge come nel caso della donazione di rene
fra viventi di cui alla legge 26
giugno 1967, n. 458.
Le limitazioni di ordine
giuridico a donazioni che
comportano menomazioni per l'integrità fisico-psichica
del donatore trovano corrispondenza in ambito etico così come puntualmente
sottolineato anche dal C.N.B. che, pur non escludendo
la possibilità di ampliare l’ambito dei
possibili donatori di rene
oltre i consanguinei più stretti, espressamente evidenzia "che l'atto medico in sè considerato, di
donazione da vivente non si sottrae a qualche dubbio di non
eticità della menomazione per la prospettiva di salute
del donante".
A tali considerazioni vanno poi aggiunte le preoccupazioni derivanti dalla
possibilità che si instauri un intollerabile commercio di organi
in cui i "donatori" sarebbero soprattutto soggetti economicamente e
giuridicamente deboli, per i
quali la tutela dell'integrità fisica assumerebbe, nella pratica, una rilevanza
del tutto secondaria.
Proprio con riferimento a tale preoccupazione il C.N.B.
evidenzia la necessità di
considerare la donazione di organi tra viventi "secondo una linea etica da
contrapporre a quelle concezioni che sembrano consentire ad una
commercializzazione di
organi. Una tale commercializzazione implicherebbe in generale il collocarsi
delle scelte e decisioni sui trapianti in una sfera di
rapporti economici e non etici al cui interno non potrebbero non diffondersi
soluzioni e pratiche distributive
che non avrebbero nulla a che fare con quelle esigenze di
parità, equità e giustizia che una prospettiva etica sui trapianti dovrebbe
invece far valere".
L'articolo in esame pone a suo fondamento proprio le preoccupazioni suesposte e
le considerazioni svolte in relazione alle stesse. Infatti viene in rilievo, per ciò che attiene al prelievo di tessuti
(come ad es. pelle), la necessità di
considerare sia la finalità dello stesso, che possono essere solo di natura
terapeutica o di ricerca, sia il fatto
che dal prelievo non derivino lesioni permanenti per l'integrità psico-fisica
del donatore.
Viene inoltre espressamente vietato che il prelievo sia
effettuato per fini di
commercio o di lucro, e per lo stesso
si richiede il consenso scritto del donatore o dei suoi legali rappresentanti.
Appare evidente, dalla formulazione della norma, che, pur in
presenza di un
consenso del donatore, formalmente documentato, ove la donazione risulti mossa
da motivi di lucro di cui il
medico sia a conoscenza o, peggio,
riguardo ai quali svolga un ruolo di mediazione,
il medico stesso non può
ritenersi esente da responsabilità, quanto meno, deontologica.
CAPO VII - SESSUALITÀ' E
RIPRODUZIONE
Art. 40 Informazione in materia di sessualità, riproduzione e contraccezione.
Il medico,
nell'ambito della salvaguardia del diritto
alla procreazione cosciente e responsabile, è tenuto a fornire ai singoli e
alla coppia, nel rispetto della libera determinazione della
persona, ogni corretta informazione
in materia di
sessualità, di
riproduzione e di
contraccezione.
Ogni atto medico diretto a intervenire in materia di
sessualità e di riproduzione
è consentito soltanto al fine di
tutelare la salute.
Commento:
Il capo VII si apre con l’art. 40 che si riferisce al tema dell’informazione
in materia di sessualità,
riproduzione e contraccezione.
Con tale articolo viene ribadito il
compito del medico di
fornire ai singoli e alla coppia le informazioni
necessarie in materia di
sessualità , di riproduzione e di
contraccezione.
Rispetto alla precedente stesura del codice del
1995 è interessante notare l’eliminazione dell’inciso "nei limiti dell’attività
professionale". Questo emendamento deve essere letto nell’ottica,
che informa
tutto il nuovo codice,
della responsabilizzazione del medico, al di là di quelli
che sono gli stretti e specifici ambiti della propria attività professionale.
Dall'insieme della disciplina
dettata dal nuovo codice
deontologico emerge una chiara impostazione del riconoscimento della
correttezza e doverosità di un
comportamento del medico
volto a rendere i cittadini
pienamente consapevoli ed effettivamente responsabili delle opzioni
fondamentali attinenti alla sfera della propria salute.
Con riferimento specifico all'ambito della sessualità, della riproduzione e
contraccezione ciò si traduce nel dovere del medico di
svolgere, nell'espletamento della sua attività professionale, opera di informazione
indispensabile a rendere effettivo
il diritto alla procreazione
cosciente e responsabile.
Da ciò la necessità e, quindi,
l'obbligo del medico di fornire tale informazione in modo corretto. Questo aggettivo riferito
all'informazione
risulta forse più idoneo rispetto all"utile"
rinvenibile nella norma corrispondente del previgente
codice.
Se, infatti, il concetto di utilità presuppone una valutazione della situazione
soggettiva ed oggettiva in cui l'informazione
viene data e, quindi, un
adeguamento della stessa a detta situazione secondo parametri che sono propri di chi
opera tale adeguamento , la correttezza, invece, rinvia ai soli dati obiettivi
che connotano l'oggetto dell'informazione
che, pertanto, deve essere trasmessa per quello che è, senza passare al vaglio di
valutazioni ed attraverso gli adeguamenti soggettivi di chi la
fornisce.
Il riferimento alla corretta informazione
in una materia quale quella della sessualità, in cui oltre ai dati di
valenza scientifica vengono in rilievo importanti ed
ineliminabili convincimenti e considerazioni d'ordine
morale religioso, appare, dunque, il mezzo più adeguato per rendere effettivo
in tale materia il principio sancito dal precedente art.17 che impone al medico, nel
rapporto con il paziente, il rispetto dei diritti
fondamentali della persona e, pertanto, vieta allo stesso di
imporre le proprie opinioni morali o religiose ed in genere la propria
concezione della vita.
Sempre con riferimento all'informazione
in materia di sessualità, riproduzione
e contraccezione, va rammentato quanto al riguardo sancito dalla L. 194 del 22 maggio 1978 che all'art. 5 fissa il dovere
per il medico di
fornire informazioni
alla donna che intenda effettuare IVG circa i diritti a
lei spettanti e gli interventi di carattere
sociale cui può fare ricorso. L'art.14 ,inoltre,
prevede che "il medico che
esegue l'interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazione
e le indicazioni sulla
regolazione delle nascite, nonchè a renderla
partecipe dei procedimenti
abortivi, che devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità
personale della donna."
Per quanto attiene poi al precetto di cui al
secondo comma del presente articolo, va precisato che con esso si individua
la tutela della salute, intesa nell'ampia accezione di cui al
secondo comma dell'art.3, quale finalità che renda leciti trattamenti medici
inerenti alla sessualità e riproduzione.
In tale previsione vanno ricompresi, pertanto, gli
interventi espressamente consentiti dalla legge e cioè
l'interruzione volontaria di
gravidanza (L. n. 194 del 1978) e la correzione della
transessualità (L n.164 del
1982).
A tali trattamenti si aggiungono poi, in termini problematici in mancanza di
apposite discipline normative, la
sterilizzazione volontaria cui brevemente accenneremo di
seguito, e la fecondazione artificiale e l'ingegneria genetica , per le quali
si rinvia agli artt. 41 e 42.
Con riferimento alla sterilizzazione, va rammentato che nell'ambito della
stessa si distingue tra:
- sterilizzazione terapeutica, diretta a
risolvere problemi patologici attuali (lesioni neoplastiche) o potenziali
- sterilizzazione eugenica, diretta a impedire la
nascita di figli colpiti da certe
o probabili tare ereditarie
- sterilizzazione anticoncezionale, motivata dal desiderio di
evitare la procreazione.
Mentre la sterilizzazione terapeutica, temporanea o permanente che sia o debba essere, si connette alla normale potestà di
curare, vengono avanzati dubbi sulla legittimità giuridica
della sterilizzazione anticoncezionale, specie se permanente e irreversibile in
quanto contraria al disposto
dell'art. 5 c.c.
In stretta analogia con quanto è occorso per l'interruzione volontaria della
gravidanza, vi è chi sostiene che la legge di
riforma sanitaria (23 dicembre
1978, n. 833), -estendendo il concetto di salute
fino ad identificarlo con quello di
benessere da assicurare nel rispetto della dignità e
della libertà individuale-
e la parallela legge sulla tutela della procreazione cosciente e responsabile,
abbiano creato spazi di
legittimità e di liceità all'atto medico
sterilizzante. Esso, pertanto, verrebbe ad acquisire il significato di intervento
da attuare nell'ambito del S.S.N.
Art. 41 Interruzione volontaria di gravidanza
L’interruzione della
gravidanza, al di fuori
dei casi previsti dalla legge, costituisce grave infrazione deontologica tanto
più se compiuta a scopo di lucro.
Il medico
obiettore di
coscienza, ove non sussista imminente pericolo per la vita della donna, o, in
caso di tale
pericolo, ove possa essere sostituito da altro collega altrettanto
efficacemente, può rifiutarsi d'intervenire nell'interruzione volontaria di
gravidanza.
Commento:
Questo articolo facendo seguito
all’impostazione generale sul tema del rifiuto d’opera professionale disciplinato
dall’art. 19, già commentato, prevede disposizioni
particolari in caso specifico dell’obiezione di
coscienza derivate dalla richiesta di
interruzione volontaria di
gravidanza. In questo caso viene utilizzata
correttamente la dizione
obiezione di coscienza in quanto
viene fatta propria la terminologia legislativa prevista dalla legge 194 del
1978 che ha prodotto nel nostro ordinamento
la regolamentazione giuridica
dell’interruzione volontaria della gravidanza.
I principi della legge sono ripresi e confermati anche a livello del codice di
deontologia e pertanto l’osservanza della normativa in materia consente al medico di
operare senza timore di
intercorrere in violazioni etico-deontologiche.
L'interruzione volontaria di
gravidanza non costituisce violazione dei principi deontologici solo ove effettuata in conformità della Legge vigente in materia
(L.194 del 1978).
Tale intervento, come è noto, può essere però rifiutato attraverso il ricorso
all'obiezione di coscienza nei limiti e
secondo le modalità fissati dalla legge.
In ambito deontologico il rispetto del sistema tracciato dalla legge fa
assumere la connotazione di non
illiceità agli interventi di interruzione di
gravidanza, mentre la finalizzazione a scopo di lucro di
prestazioni di tale natura operati al di fuori
della legge comporta un aggravamento ulteriore della violazione deontologica.
Si ha, infatti, in tale fattispecie, una sorta di
concorso formale eterogeneo di
violazioni deontologiche in quanto con una medesima
azione vengono ad essere violati più precetti che, nel caso specifico, sono
quelli di cui all'articolo in
esame e agli artt. 3 e 4, concernenti l'indipendenza
e la dignità della professione.
Come annotazione finale va evidenziato che nell'ultimo comma è previsto per il
medico obiettore
la facoltà di
rifiutarsi di intervenire
nell'interruzione di
gravidanza "se non sussista pericolo per la vita della donna, o in caso di tale
pericolo ove non possa essere sostituito altrettanto efficacemente". Con
tale norma si pone una disciplina
specifica per la fattispecie della IVG rispetto a
quella generale sull'obiezione di
coscienza di cui all'art. 19, ove la
legittima operatività della obiezione di
coscienza trova limite nella possibilità che l'atteggiamento del medico
possa essere "di grave
e immediato nocumento al
paziente".
Nella fattispecie in esame il limite è spostato, invece, al pericolo imminente di morte.
La ragione di tale diversità
va ricercata nel difficile
bilanciamento di interessi, quelli della madre e quelli del concepito,
ritenuti dall'obiettore del tutto omogenei, interessi che nell'interruzione
volontaria di gravidanza vengono, ad
avviso del medico obiettore, a
contrapporsi creando un drammatico conflitto di
coscienza.
Art. 42 Fecondazione assistita
Le tecniche di
procreazione umana medicalmente
assistita hanno lo scopo di
ovviare alla sterilità.
E’ fatto divieto
al medico,
anche nell’interesse del bene del nascituro, di
attuare:
a) forme di
maternità surrogata;
b) forme di
fecondazione assistita al di fuori di coppie
eterosessuali stabili;
c) pratiche di
fecondazione assistita in donne in menopausa non precoce;
d) forme di
fecondazione assistita dopo la morte del partner.
E’ proscritta ogni pratica di
fecondazione assistita ispirata a pregiudizi
razziali; non è consentita alcuna selezione dei gameti ed è bandito
ogni sfruttamento commerciale, pubblicitario, industriale di
gameti, embrioni e tessuti embrionali o fetali, nonché
la produzione di
embrioni ai soli fini di
ricerca.
Sono vietate pratiche di
fecondazione assistita in studi,
ambulatori o strutture sanitarie privi di idonei
requisiti.
Commento:
La formulazione attuale dell’articolo è stata snellita rispetto al testo
del 1995 esclusivamente da un punto di vista
formale; sostanzialmente vengono ribaditi i
punti di riferimento che il
Consiglio Nazionale della Federazione nel 1995 ritenne di
fissare al fine di individuare
una linea di condotta che il medico deve
seguire in situazioni riguardanti la fecondazione assistita.
La necessità di una regolamentazione
legislativa che tuttora è carente e che fa si che l’Italia rimanga l’unico
Paese europeo privo di una
normazione in materia, è oggi ancora più sentita in considerazione della
mancata approvazione definitiva del testo unificato n. 4048/Senato approvato
dalla Camera dei deputati il 26 maggio 1999 disegni e
proposte di legge "Disciplina
della procreazione medicalmente
assistita". L’attuale situazione normativa, priva di regolamentazione giuridica, fa
si che sia possibile qualunque tipo di
intervento senza alcuna garanzia del possesso dei requisiti idonei tali da far
mancare ogni tutela alla corretta gestione socio-sanitario del procedimento
L’unico indirizzo esistente in
materia è rappresentato dalla circolare del Ministro della Sanità Degan del 1987, che autorizzò nelle strutture pubbliche la
fecondazione omologa pur senza definire i requisiti minimi delle strutture.
Il Ministero della Sanità nel marzo 1997, a seguito di
gravissimi fatti di
cronaca riguardanti donazioni dietro
compenso, ha ritenuto necessario censire la presenza di centri
presso cui si effettuano pratiche di
inseminazione assistita.
La norma in esame recepisce in toto
i contenuti di un ordine del
giorno del 2 aprile 1995 dal Consiglio Nazionale della Federazione, in data
poco precedente alla approvazione del precedente codice. Risulta interessante, al fine di
chiarire meglio le scelte operate in materia di
fecondazione assistita, riportare il testo di tale
ordine del giorno con il quale,
appunto, il Consiglio Nazionale della FNOMCeO "di fronte
all'imponente sviluppo del fenomeno della procreazione assistita, della
maternità surrogata e della donazione di seme,
consapevole della rilevanza medico-sociale che
tale problematica riveste esprime la propria grave preoccupazione per le
conseguenze che la mancata regolazione di tali
pratiche può comportare sul piano deontologico per i medici e su
quello psico-fisico per la madre e il bambino CHIEDE con forza al Governo e al
Parlamento un urgente, sollecito, intervento legislativo per regolamentare la
materia, ribadendo la disponibilità
a collaborare per gli aspetti di
propria competenza RITIENE che il bene del nascituro debba sempre considerarsi
il criterio di riferimento essenziale
per la valutazione delle diverse
opzioni procreative e, pertanto, che per quanto riguarda l'ammissione a
procedure di procreazione assistita,
debbano essere comunque vietate:
a) tutte le forme di
maternità surrogata
b) forme di
fecondazione artificiale al di fuori di coppie
eterosessuali stabili
c) pratiche di
fecondazione assistita in donne in menopausa non precoce
d) forme di
fecondazione artificiale dopo la morte del partner
Ritiene inoltre che sia
proscritta ogni pratica di
procreazione assistita ispirata a pregiudizi
razziali, che non sia consentita alcuna selezione del
seme basata su prerogative di tipo
socio economico o professionale e che sia bandito
ogni sfruttamento commerciale, pubblicitario, industriale di
gameti, embrioni e tessuti embrionali o fetali;
INVITA gli Ordini provinciali a
sottoporre a procedimento disciplinare
i medici che non si attengono
ai predetti principi, considerati ad oggi inderogabili o che svolgano, in
materia, attività in contrasto con i sopra enunciati principi in studi,
ambulatori o strutture sanitarie privi di idonei
requisiti.
E' interessante, infine, evidenziare che il Comitato permanente dei medici
europei, presa conoscenza della norma posta in materia di
fecondazione assistita nel codice
deontologico italiano, ha ritenuto di interesse generale la scelta italiana e ha deciso di porla,
quindi, a base di una
riflessione comune sul tema.
CAPO VIII - SPERIMENTAZIONE
Art. 43 Interventi sul genoma
e sull'embrione umano
Ogni intervento sul genoma umano non può che tendere alla prevenzione e alla
correzione di condizioni
patologiche.
Sono vietate manipolazioni genetiche sull’embrione che non abbiano finalità di
prevenzione e correzione di condizioni
patologiche.
Commento:
Non a caso l’ampio capitolo dedicato
alla sperimentazione si apre con un richiamo di alto
significato bioetico alla tutela dei valori essenziali
e peculiari nell’uomo, impressi nel e dal suo codice
genetico. Si tratta di una
corretta indicazione che allo stato
attuale si rivolge all’ambito della ricerca scientifica piuttosto che alla
realtà clinica, ma il monito che la sottende vuole imprimere nel medico una
coscienza dei propri limiti morali di fronte
alla tumultuosa evoluzione scientifica e alla propria responsabilità nei
confronti dell’umanità oltreché della singola
persona.
La portata delle nuove conoscenze sul genoma umano è
d’altronde universale tanto da aver indotto l’UNESCO ad
adottare il 3-12-1998, una solenne dichiarazione
universale che all’art.1 così si esprime: "il genoma
umano sottende l’unità fondamentale di tutti
i membri della famiglia umana, come pure il riconoscimento della loro intrinseca
dignità e della diversità;
in senso simbolico esso è patrimonio dell’umanità. All’articolo 10 e successivi
la dichiarazione ammette la
possibilità della ricerca scientifica sul genoma
umano, ma solo "nel rispetto dei diritti
dell’uomo, delle libertà fondamentali e della dignità
degli individui, espressamente
condannando la clonazione e stabilendo il fine esclusivo che è quello di
alleviare le sofferenze o di
migliorare la salute dell’individuo e
di tutta l’umanità."
Anche la Convenzione del Consiglio d’Europa sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina approvata ad Oviedo il 4
aprile 1997 afferma (art.13) che "ogni intervento che abbia per scopo la
modificazione del genoma umano non può essere intrapreso se non per scopo di
prevenzione, di diagnosi
o di terapia e solo se esso non abbia per fine quello di
introdurre una modificazione
nel genoma della discendenza."
E’ altresì interdetta ogni selezione del sesso "se non per evitare una
malattia ereditaria legata, appunto al
sesso".
D’altronde, lo stesso Consiglio d’Europa ha sottoposto alla firma degli Stati
membri (Parigi 12 gennaio 1997), il protocollo addizionale
alla convenzione di Oviedo recante l’esplicito divieto di ogni
forma di clonazione di esseri
umani.
Il tema che investe la manipolazione genetica e travalica nell’ambito della
fecondazione assistita, non è ancora affrontato in Italia sul piano legislativo
se si eccettuano ripetuti decreti ministeriali che vietano la clonazione umana.
Tutta la dottrina bioetica tende dunque ad aprirsi alla sperimentazione sul
patrimonio genico ma solo ai fini di tutela
della salute, da intendersi sia come prevenzione che come cura.
Lo sviluppo e la prospettiva di ulteriori progressi nel settore degli interventi sul genoma pongono, infatti, la necessità di individuare
dei limiti entro cui detti interventi possano essere effettuati e ciò anche al
fine di garantire l'umanità e
lo stesso equilibrio dell'ecosistema da un uso indiscriminato
della ingegneria genetica. Tale necessità appare tanto più urgente se si
considera anche che da parte di alcuni ricercatori stranieri vengono fatte pressioni per
ottenere il brevetto sui frammenti di geni
umani da loro individuati.
Brevettare i geni significherebbe acquisirne la proprietà quindi il
potere di produzione e di
escludere altri da tale produzione.
Da ciò la necessità di
fissare, in tale settore, principi etici inderogabili volti a garantire la
tutela fondamentale della persona. In sede europea si è esclusa
la brevettabilità del corpo umano e di parti di esso.
Per ciò che attiene in particolare alla terapia genica
va evidenziato che il CNB ha prodotto al riguardo un documento, approvato il
15.2.1991.
I principi espressi in tale parere risultano di
integrazione e specificazione delle indicazioni
contenute nell'articolo in esame.
Innanzi tutto viene operata una distinzione
tra terapia genica somatica e terapia genica germinale. Il
primo tipo di terapia "si propone di eliminare o ridurre i difetti molecolari a livello delle cellule somatiche con effetti limitati
all'individuo " mentre il secondo "mira a correggere difetti
genetici in cellule della linea germinale con effetto sulla discendenza".
Allo stato attuale la terapia genica germinale è, a parere del CNB,
"improponibile dal punto di vista etico e scientifico.
Il principio etico fondamentale chiamato in causa è quello della
intangibilità del patrimonio genetico di un
soggetto, che può tuttavia conciliarsi con quello del diritto di un individuo
al mantenimento o al recupero dell'efficienza della propria dotazione genica.
Dal punto di vista
scientifico-empirico l'improponibilità dell'intervento deriva dal fatto che non
esistono attualmente le basi concettuali e tecniche
per prevedere gli effetti di una
terapia genica germinale sullo sviluppo dell'individuo e
della sua discendenza; non si deve
tuttavia considerare preclusa in futuro la possibilità che, con l'acquisizione di nuove
conoscenze e lo sviluppo di
tecniche più efficienti, si realizzi una integrazione mirata di geni
nella linea germinale senza alterare la struttura e la funzione del genoma."
Va però precisato al riguardo che il diritto
all'identità genetica va inquadrato tra i diritti
della personalità, ed è da intendersi quale diritto
ad una sfera intangibile da manipolazioni esterne; ciò non significa che tale diritto
sia incompatibile con la libertà di poter
scegliere di modificare
il proprio patrimonio genetico ove questo risulti difettoso.
Risultano di
notevole interesse le considerazioni svolte dal CNB nel documento prodotto
sulla terapia genica in merito agli altri problemi etici posti dalla terapia
genica germinale, ulteriori rispetto a quello della intangibilità del
patrimonio ereditario di un
soggetto. In particolare viene posto in rilievo il
problema della "responsabilità di
decidere quali geni trasmettere alla discendenza,
ammesso che l'identità genetica venga mantenuta e che il gene possa inserirsi
correttamente nei cromosomi e seguire le normali leggi mendeliane
dell'eredità. Il
problema non tocca solo la singola persona con la sua progenie, ma si
estende alla collettività, in quanto un intervento sistematico sul genoma di
singoli individui può avere riflessi
sulla struttura genetica della popolazione. Una azione
negativa sul carico genetico, ossia l'insieme delle mutazioni deleterie che
passano da una generazione all'altra potrebbe essere giustificato, mentre non
sarebbe accettabile un intervento mirato al potenziamento di
determinate qualità o all'induzione di nuovi
caratteri. Modificazioni indotte nel genoma con questa finalità rientrano nell'eugenetica positiva che non è ammissibile a priori per due ragioni
fondamentali: non esistono criteri validi per
stabilire quali caratteri fisici o comportamentali debbano essere migliorati o
innovati a beneficio dell'individuo e
della società; quand'anche risultasse proponibile un intervento a scopo perfettivo non vi sarebbe il modo di
decidere quali potrebbero essere i destinatari. In assenza di una attenta sorveglianza la terapia genica germinale
potrebbe portare ad abusi e condotte aberranti che si risolverebbero nella negazione
della libertà individuale
e nella discriminazione tra
soggetti."
Quanto alla terapia genica somatica il CNB ritiene che sia "accettabile da
tutti i punti di vista, essendo
assimilabile ad una terapia sostitutiva o ad un trapianto non a livello di organo,
di tessuto o di
cellule ma a livello molecolare.
Ogni tentativo di terapia genica della
linea somatica -a parere del CNB- dovrebbe essere accompagnato e preceduto da una accurata analisi dei seguenti fattori:
a) possibili benefici e possibili rischi di tale
terapia;
b) confronto in termini di
benefici, rischi ed efficacia della terapia in oggetto con terapie tradizionali
riconosciute ed accettate dalle scienze mediche;
c) soddisfacimento delle misure di
controllo e delle condizioni di
accettabilità della terapia genica somatica stabilite dalle norme vigenti e
dalle consuetudini accettate dalla
comunità scientifica nazionale e internazionale.
- Il Comitato Nazionale di
Bioetica ritiene che la terapia genica somatica possa rientrare nel dominio più
generale della sperimentazione nell'uomo di nuovi
indirizzi terapeutici e debba come
tale rispondere a tutti i criteri di accettabilità comuni a questi tipi di
interventi.
- Il Comitato Nazionale per la Bioetica richiama l'attenzione sull'opportunità
che una definita autorità:
a) aggiorni l'elenco di condizioni
patologiche ereditarie, congenite o
acquisite, per le quali sussista l'indicazione
di terapia genica somatica;
b) definisca criteri guida per le operazioni tecnico-preparative
caratteristiche del settore e per i metodi di
monitoraggio successivo degli esiti delle esigenze terapeutiche, anche in
stretto collegamento con i Centri e i ricercatori operanti in altri paesi;
c) proceda alla raccolta di dati
sulla sperimentazione in corso."
Tali indicazioni caricano di
significato anche i precetti deontologici della norma in esame, ed in
particolare quello di cui al
secondo comma, ai sensi del quale possono effettuarsi trattamenti di tipo
genetico sul prodotto del concepimento al solo fine di
prevenzione e correzione di condizioni
patologiche, rispecchiando in ciò quanto il CNB ha precisato in merito al diritto
alla integrità genetica da intendersi quale "diritto a
ottenere l'assistenza necessaria a raggiungere un'identità genetica liberata
dalle minorazioni che ne hanno colpito la struttura.".
Art. 44 Test genetici
predittivi
Non sono ammessi test genetici
se non diretti
in modo esclusivo a rilevare o predire
malformazioni o malattie ereditarie e
se non espressamente richiesti, per iscritto, dalla persona interessata o dalla
madre del concepito, che hanno diritto
alle preliminari informazioni
e alla più ampia e oggettiva illustrazione sul loro significato, sul loro
risultato, sui rischi della gravidanza, sulle prevedibili
conseguenze sulla salute e sulla qualità della vita, nonché
sui possibili interventi di
prevenzione e di
terapia.
Il medico non
deve, in particolare, eseguire test genetici predittivi a
fini assicurativi od occupazionali se non a seguito di espressa
e consapevole manifestazione di
volontà da parte del cittadino
interessato.
Commento:
Si è ritenuto di redigere un
articolo specifico riguardo al tema dei test genetici e predittivi,
che si è già prepotentemente imposto a livello diagnostico,
nella duplice metodologia dello screening e del test mirato su soggetti
ritenuti esposti a rischio ereditario.
La prima parte dell’articolo, in sintonia con l’art.12 della Convenzione sui diritti
dell’uomo e la Biomedicina
(Oviedo-1997), conferma come non possa procedersi a test predittivi di
malattie genetiche al fine sia di
identificare un soggetto come portatore di un
gene responsabile di
malattia sia di svelare una predisposizione
o una suscettibilità genetica ad una malattia se non per fini medici o di
ricerca medica e previa
consultazione con un appropriato comitato di
consulenza genetica.
Anche in questo caso è essenziale un consenso espresso
per iscritto dalla persona interessata o dei suoi legali rappresentanti in caso
di soggetti minori o incapaci, e
a maggior ragione, della donna in stato di
gravidanza.
La conseguenza, in quest’ultima ipotesi, è rappresentata in caso di
positività del test su materiale coriale, dalla interruzione volontaria della gravidanza la cui scelta
peraltro dipende unicamente e solo
dalla volontà della donna.
Massima prudenza e saggia condotta si impongono ai medici nel
ricorso a test genetici in soggetti giovani, particolarmente se d’età minore e
nella rivelazione, peraltro ineludibile, della
incombenza di una malattia genetica a
sviluppo tardivo, per cui massima
attenzione va rivolta al possibile impatto sulla qualità della vita. Nel
rispetto della privacy si impone in ogni caso il
ricorso alla consulenza genetica.
Definitivo è il divieto
per il medico di
compiere e tanto meno di
eseguire test genetici a fini assicurativi od occupazionali sottolineando
la illiceità di comportamenti che,
finalizzati o non scopo di lucro,
sono chiaramente in contrasto con i principi fondamentali dell’etica e della
deontologia medica.
Al riguardo va evidenziato che a favore di tali
test potrebbero premere per motivi diversi
compagnie di assicurazioni (per la stipula dei contratti sulla vita e
sulla malattia) e datori di
lavoro, a scopo di
selezione occupazionale.
Altri test possono fornire indicazioni
sulle predisposizioni a determinate
malattie o sulla agevolazione del loro sviluppo in
concomitanza di un determinato ambiente
di lavoro.
Al riguardo va evidenziato che la Risoluzione Az-327 del 1988 del Parlamento
europeo riconosce come inalienabile il diritto
del lavoratore ad essere informato e
consultato prima degli esami, nonchè di
rifiutare le analisi genetiche senza indicazioni
dei motivi e senza che ciò possa comportare conseguenze negative. Ma il rifiuto da parte del medico
dovrebbe resistere anche alla lusinga del consenso.
Art. 45 Sperimentazione scientifica
Il progresso della medicina è
fondato sulla ricerca scientifica che si avvale anche della sperimentazione
sull'animale e sull'Uomo.
Commento:
Si tratta di un articolo generale
che pone principi che saranno meglio esplicitati negli articoli successivi,
finalizzati a specifiche situazioni entro le quali la sperimentazione si
svolge. Questo articolo esprime un concetto fondamentale della professione medica,
ossia la storia della sperimentazione scientifica che è strettamente connessa
al progresso medico, che peraltro non
potrà mai prescindere dal rispetto dell’uomo inteso come individuo
portatore della propria dimensione
etica.
Con tale norma è posto un principio d'ordine
generale di pieno riconoscimento e
validità della ricerca e della
sperimentazione quali elementi imprescindibili
per il progresso della medicina,
in armonia con l’art.33 della Costituzione della Repubblica.
Il coinvolgimento nell'attività di
ricerca e sperimentazione in campo medico di valori
fondamentali quali la tutela della libertà, dell'informazione,
dell'integrità e della salute degli uomini nonché
della limitazione delle sofferenza per gli animali (v. al riguardo art.47),
richiede la fissazione di limiti
e di principi generali da parte
dell'ordinamento giuridico e di quello
deontologico.
"Per sperimentazione deve intendersi l'insieme di quelle
attività e procedure medico-chirurgiche che
non abbiano ancora conseguito, sia per la natura innovativa dei mezzi impiegati
e delle tecniche diagnostiche
o terapeutiche esperite, sia per le inusuali caratteristiche qualificative,
quantitative e modali della loro applicazione, una consolidata e tramandata
legittimazione clinico-scientifica."
(Da: Guida all'esercizio professionale per i medici
chirurghi e gli odontoiatri, p.103) .
La sperimentazione può essere effettuata, com’è noto:
- su soggetti sani con scopi meramente scientifici, d'interesse biologico o
clinico
- su soggetti ammalati, con finalità clinico-scientifica
o terapeutica.
Le diverse forme di
sperimentazione vanno rapportate a diversi
criteri e parametri. Nel nostro ordinamento
giuridico, mentre è stata posta
un'articolata disciplina giuridica per
quanto attiene alla sperimentazione dei farmaci, per la sperimentazione clinica
non vi è un quadro di
riferimento normativo definito nè si ha una individuazione
di organi di
controllo, nè di una
struttura a livello centrale che sovrintenda a tale attività con poteri anche di
intervento.
A questo riguardo va segnalato il ruolo svolto dai Comitati Etici attivati in
alcuni ospedali, ASL e dei Comitati Etici e Tecnici Regionali costituiti in
alcune Regioni.
Deve sottolinearsi come il Decreto Ministeriale del 18
marzo 1998 "linee guida di
riferimento per l’istituzione e il funzionamento dei comitati etici" e la
circolare interpretativa del Ministero della Sanità 8 aprile 1999 n. 6 giungono
a fornire regole e orientamenti omogenei per l’istituzione e l’attività dei
Comitati etici; ma tale disciplina
esprime l’esigenza di
controllo tecnico ed etico della sperimentazione farmacologica
nell’uomo (fase III e IV) e crea quindi un
possibile "vuoto" per quanto riguarda ogni altra forma di
sperimentazione sull’uomo.
Art. 46 Ricerca biomedica e sperimentazione sull'Uomo
La ricerca biomedica e la
sperimentazione sull'Uomo devono ispirarsi all'inderogabile principio
dell'inviolabilità, dell'integrità psicofisica e della vita della persona. Esse
sono subordinate al
consenso del soggetto in esperimento, che deve essere espresso per iscritto,
liberamente e consapevolmente, previa specifica informazione
sugli obiettivi, sui metodi, sui
benefici previsti, nonchè sui rischi potenziali e sul
diritto
del soggetto stesso di
ritirarsi in qualsiasi momento della sperimentazione.
Nel caso di
soggetti minori o incapaci è ammessa solo la sperimentazione per finalità
preventive e terapeutiche a favore degli stessi; il consenso deve essere
espresso dai legali rappresentanti.
Ove non esistano finalità terapeutiche è vietata la
sperimentazione clinica su minori, su infermi di mente
o su soggetti che versino in condizioni di
soggezione o dietro
compenso di
qualsiasi natura.
La sperimentazione deve essere programmata e attuata secondo idonei
protocolli nel quadro della normativa vigente e dopo
aver ricevuto il preventivo assenso da parte di un
comitato etico indipendente.
Commento:
L’art. 46 tratta della sperimentazione, di ogni
sperimentazione medica
sull’uomo che, oltre a ispirarsi a principi evidenti di
inviolabilità e integrità psico-fisica della persona, deve essere pienamente
conosciuta e accettata dal soggetto che vi si sottopone volontariamente.
Emerge così la necessità dell’acquisizione del consenso
chiaramente e consapevolmente espresso. La novità di questo articolo, che discende
da varie esperienze vissute nel corso di questi
ultimi anni, è contenuta nell’ultimo comma che prevede la programmazione della
sperimentazione e la sua attuazione secondo idonei protocolli rispettosi di
principi normativi.
Sulla ricerca biomedica
valgono le raccomandazioni contenute nella "Dichiarazione di
Helsinki" dell'Associazione medica mondiale del
1964 (riveduta e modificata
nel 1975, nel 1983 e nel 1989) e della quale di
seguito si riporta la parte concernente, appunto, i principi
fondamentali".
"1 La ricerca biomedica sui soggetti umani deve
uniformarsi a principi scientifici generalmente accettati e basarsi su una
sperimentazione tanto di
laboratorio quanto su animali svolta in modo adeguato, nonché su una approfondita
conoscenza della letteratura scientifica.
2 La definizione e l'esecuzione di ogni
procedura sperimentale applicabile a soggetti umani vanno chiaramente formulate
in un protocollo da trasmettersi ad un comitato indipendente
dallo sperimentatore e dallo sponsor, appositamente nominato onde averne il
parere, i commenti e la guida, a condizione
che questo comitato indipendente
sia conforme alle legge ed alle regolamentazioni vigenti nel paese nel quale si
effettua la ricerca sperimentale.
3 La ricerca biomedica su
soggetti umani deve essere svolta soltanto da persone scientificamente
qualificate e sotto la supervisione di un medico
competente sotto il profilo clinico. La responsabilità dei soggetti umani deve
sempre spettare ad una persona qualificata sotto il profilo medico e
mai al soggetto della ricerca stessa, anche se quest'ultimo ha dato il proprio
consenso.
4 La ricerca biomedica su
soggetti umani non è legittima se l'importanza dell'obiettivo da raggiungere
non è proporzionata al rischio corso dai soggetti.
5 Ogni progetto di
ricerca biomedica su
soggetti umani deve essere preceduto da una accurata
valutazione comparativa dei rischi e dei benefici per il soggetto o per altre
persone. Agli interessi del soggetto va accordata la priorità
rispetto agli interessi di scienza e società.
6 Il diritto del soggetto della ricerca a salvaguardare la propria integrità va sempre
rispettato. Va presa ogni precauzione per rispettare la sfera privata del
soggetto e minimizzare le ripercussione dello studio sulla
sua integrità fisica e mentale nonché sulla sua personalità.
7 I medici devono evitare di
impegnarsi in progetti di ricerca
su soggetti umani qualora non siano convinti che i rischi sono ritenuti prevedibili. I
medici dovranno porre termine ad
ogni indagine qualora riscontrino che i rischi sono superiori ai potenziali
benefici.
8 Nel pubblicare i risultati della propria ricerca al medico è fatto obbligo di
salvaguardare l'accuratezza dei risultati. I rapporto
relativi ad una sperimentazione non conforme ai principi enunciati nella
presente dichiarazione non vanno
accettati ai fini della pubblicazione.
9 In qualsiasi ricerca su essere umani ogni soggetto
potenziale va informato
in modo adeguato circa obiettivi, metodi,
vantaggi previsti e rischi potenziali dello studio
nonché disagi che lo studio
stesso può comportare. Esso od essa va informato
che è liberto di astenersi dal partecipare
allo studio e ritirare il proprio
consenso ad una tale partecipazione, Il medico deve
quindi ottenere il consenso
liberto ed informato
del soggetto, preferibilmente per iscritto.
10 All'atto di ottenere il consenso informato
per il progetto di ricerca,
il medico deve esercitare
particolare cautela qualora il soggetto si trovi in una relazione di dipendenza
dal medico stesso ovvero il suo
consenso possa venire estorto con la violenza. In tali
casi il consenso informato
va ottenuto da un medico non
impegnato nell'indagine e completamente indipendente
da relazioni ufficiali.
11 In caso di incapacità giuridica, il
consenso informato
va ottenuto da chi ha la custodia e la
tutela del soggetto conformemente alla legislazione nazionale. Nel caso in cui
l'incapacità fisica e mentale renda impossibile ottenere il consenso informato
del soggetto o qualora quest'ultimo non abbia ancora raggiunto la maggiore età,
il permesso del parente responsabile sostituisce
quello del soggetto conformemente alla legislazione nazionale.
Ogni qualvolta peraltro un minore sia in grado di dare
il proprio consenso, questo va ottenuto in aggiunta a quello di chi ne ha la custodia e la
tutela.
12 Il protocollo di
ricerca deve sempre contenere un'enunciazione delle considerazioni etiche in
causa e mostrare il fatto che i principi della presente dichiarazione
sono rispettati.
In ogni Paese scientificamente evoluto, ogni protocollo sperimentale viene esaminato da un Comitato etico, che esprime un parere
non vincolante ma impegnativo.
Art. 47 Sperimentazione clinica
La sperimentazione, disciplinata
dalle norme di buona
pratica clinica, può essere inserita in trattamenti diagnostici
e/o terapeutici, solo in quanto sia razionalmente e
scientificamente suscettibile di
utilità diagnostica
o terapeutica per i cittadini
interessati.
In ogni caso di studio
clinico, il malato non potrà essere deliberatamente privato dei consolidati
mezzi diagnostici
e terapeutici indispensabili
al mantenimento e/o al ripristino dello stato di
salute.
Commento:
L’articolo in commento riguarda essenzialmente la sperimentazione clinica
con particolare riferimento a quella di nuovi
farmaci.
La dichiarazione di
Helsinki sulla ricerca clinica formula le seguenti
raccomandazioni.
1 Nel trattare il malato, il medico deve
essere libero di far ricorso ad una
nuova misura diagnostica e terapeutica
se a suo giudizio questa offre la
speranza di salvare una vita umana,
ridare la salute o alleviare le sofferenze.
2 I potenziali vantaggi, rischi e disagi in
un nuovo metodo andranno confrontati con i vantaggi dei migliori metodi diagnostici
e terapeutici di uso corrente.
3 In ogni studio medico
tutti i pazienti - inclusi quelli di un
eventuale gruppo di
controllo - devono avere la garanzia che nel loro caso vengano impiegati i
migliori metodi diagnostici
e terapeutici.
4 Il rifiuto del paziente di
prendere parte ad uno studio non
deve mai interferire con la relazione medico-paziente.
5 Qualora il medico ritenga di
fondamentale importanza non ottenere il consenso informato del
paziente le ragioni specifiche di questa
proposta vanno dichiarate nel protocollo
sperimentale da trasmettersi al comitato indipendente.
6 Il medico può combinare
ricerche mediche e cure allo scopo di
acquisire nuove conoscenze mediche
soltanto se ed in quanto la ricerca medica è
giustificata dal suo potenziale valore diagnostico
e terapeutico per il paziente.
Per quanto riguarda la sperimentazione di nuovi farmaci sono tuttavia intervenute le nuove direttive
di cui al decreto ministeriale 18
marzo 1998 che prevedono il decentramento dell’attività di
ratifica dei nuovi farmaci attraverso la successiva sperimentazione effettuata
in sede clinica in fase III e IV.
In pratica, seguendo l’orientamento espresso in sede di
Comunità europea che sottopone la sperimentazione di medicinali
(sia nuovi che diversamente utilizzati) a
precise regole cosiddette di "good clinical practice"
approvate dall’U.E. il 17.7.1996, il Governo italiano, con D.M. 15 luglio 1997
ha recepito tale metodologia che chiaramente
stabilisce le norme amministrative e i requisiti tecnici scientifici ed etici
dei protocolli presentati dalle industrie farmaceutiche che assumono la
qualifica di sponsor.
Successivi decreti hanno decentrato alle aziende sanitarie o ai centri clinici
specializzati il controllo di efficacia e di
sicurezza dei farmaci proposti, prima della loro dichiarazione
di notorietà e immissione in
mercato. Una responsabilità di così
forte peso sanitario e morale viene così confidata
come in ogni altro paese evoluto, ai centri clinici ove si affrontano le
essenziali fasi della sperimentazione sull’uomo sano ma più spesso
sull’ammalato, attraverso metodologie molto rigorose che prevedono il confronto
(spesso versus placebo), la somministrazione con le
procedure della cecità semplice o doppia, la valutazione biostatistica
dei risultati (Decreto 18 e 19 marzo 1998).
Si tratta di delicatissime
valutazioni clinico scientifiche ed etiche di cui è
garante e giudice (unico) un Comitato
Etico indipendente, operante sulla
struttura ove si realizza l’esperimento e che è obbligatoriamente composto da
figure professionali, almeno in parte esterne alla struttura, che prevedono la
presenza di 2 clinici, di un
farmacologo, di un biostatistico,
di un bioeticista
e di un medico
legale.
Fondamentale nelle regole di buona
condotta clinica è il consenso dell’ammalato, che deve essere consapevole dei
benefici ma anche dei rischi connessi alla sperimentazione.
In questa chiave va letto oggi l ‘art.37 che va oltre
le stesse regole europee, là ove assicura che il paziente non venga privato
della terapia già consolidata per efficacia e sicurezza.
Queste nuove regole esaltano in definitiva il ruolo del Comitato etico ma
creano indubbie difficoltà
organizzative e di
rapporto con le altre istanze etiche del tutto esenti
da vincolatività, che sottendono la consulenza etica
per le sperimentazioni diverse
da quelle dirette a validare i nuovi farmaci.
Art. 48 Sperimentazione sull'animale
La sperimentazione sull'animale
deve essere improntata a esigenze e a finalità
scientifiche non altrimenti conseguibili, a una fondata aspettativa di
progresso della scienza medica e
deve essere condotta con metodi e
mezzi idonei a evitare ogni sofferenza, dopo aver ricevuto il preventivo
assenso da parte di un
comitato etico.
Commento:
L’articolo tratta di un ulteriore ambito relativo alla sperimentazione in modo non
innovativo rispetto al passato, in quanto vengono riproposte linee di
condotta già esplicitate nel vecchio codice.
Si ribadisce la necessità che la sperimentazione sull’animale, sulla
cui validità la disputa è
da tempo accesa, debba rispettare le previsioni stabilite da norme di legge.
Innegabile è a livello scientifico la validità di una
sperimentazione effettuata sull’animale ma una più ampia partecipazione
dell’opinione pubblica al dibattito
sui cosiddetti diritti dell’animale ha
fatto si che numerose voci si siano levate, in
quest’ultimo periodo, contro questo tipo di
sperimentazione, se non adeguatamente controllata.
La sperimentazione sull’animale resta comunque una
esigenza fondamentale del progresso scientifico terapeutico cui non è possibile
oggi rinunciare e che quindi come
ben chiarisce l’art. 48, è necessario attuare sulla base di
specifiche previsioni normative.
L'articolo in esame, oltre al rinvio alla normativa legislativa vigente in
materia, con riferimento alla sperimentazione sugli animali, pone dei limiti
alla stessa a tutela degli animali medesimi, recependo,
in maniera sostanziale, le indicazioni,
che sul problema dei diritti
degli animali sono scaturite dalla riflessione etica e filosofica.
La norma deontologica in esame sancisce il dovere del medico di effettuare la sperimentazione sugli animali sulla base di
effettiva necessità ed in un'ottica di
fondate aspettative di esito
positivo della stessa, in termini di
progresso terapeutico, nel rispetto del principio fondamentale di
evitare ogni sofferenza.
Tale norma oltre a recepire le istanze etiche cui si è
accennato, si pone sulla stessa linea di
principio delle indicazioni
del Consiglio d'Europa (raccomandazione n.621 del 1971 e direttiva
del Consiglio 86/609 CEE) in materia, indicazioni
che dovrebbero trovare attuazione in normative statali delle nazioni della
comunità, ma che comunque, individuano
in via generale, quindi in
modo utile anche per ambiti diversi
da quello strettamente giuridico, i
comportamenti pratici cui gli uomini devono attenersi in attuazione dei loro
doveri e nel rispetto dei "diritti"
degli animali usati per la sperimentazione. A tale riguardo si segnalano le
prescrizioni comunitarie più significative in materia:
1) Agli animali destinati alla sperimentazione devono essere assicurate buone
condizioni di vita,
valendosi anche di
veterinari con esperienza di
animali da laboratorio e di
personale preparato a trattare con amore gli animali loro affidati.
2) Alla sperimentazione deve essere sottoposto il numero degli animali
assolutamente minimo, oggettivamente indispensabile
per ottenere risultati non ottenibili per altre vie.
3) Ogni sofferenza che può essere evitata all'animale deve essere evitata.
Nessun intervento seriamente doloroso per l'animale può essere compito se non
previa analgesia o anestesia.
Ogni deroga che i ricercatori ritengano necessaria
potrà essere fatta solo dietro
verifica previa e autorizzazione di un
organismo competente estraneo alla ricerca stessa.
All'animale deve essere procurata morte indolore al termine di una
sperimentazione, quando questa dovesse lasciare lo
stesso in una condizione di
sofferenza grave e inguaribile.
La sperimentazione sugli animali è disciplinata
dal Decreto legislativo del 27.1.1992 con il quale è
stata recepita nel nostro ordinamento
la direttiva C.E.E. n.
86/609.
Si ricorda che la legge 12 ottobre 1993, n. 413, legittima la
obiezione di
coscienza nei confronti della sperimentazione sull’animale.
CAPO IX -TRATTAMENTO MEDICO E LIBERTA' PERSONALE
Art. 49 Obblighi del medico
Il medico che assista un cittadino in
condizioni
limitative della libertà personale è tenuto al rispetto rigoroso dei diritti
della persona, fermi restando gli obblighi connessi con le sue specifiche
funzioni.
In caso di
trattamento sanitario obbligatorio il medico non
deve porre in essere o autorizzare misure coattive, salvo casi di effettiva
necessità e nei limiti previsti dalla legge.
Commento:
Il capo IX del codice di
deontologia medica è dedicato al
Trattamento medico e libertà personale.
Si è inteso con la dizione
"Trattamento medico"
allargare il concetto precedente che faceva riferimento esclusivamente ai
pazienti reclusi.
Per quanto riguarda lo specifico dell’art. 49 occorre
sottolineare l’inserimento di un
secondo comma che obbliga il medico a
non porre in essere misure coattive in caso di
rifiuto del soggetto passivo del trattamento sanitario obbligatorio.
Si è voluto sottolineare che il medico, se
non in casi eccezionali e normativamente previsti,
non può e non deve mai essere fonte di
violenza e di coercizione nei
confronti di un soggetto che non
voglia essere sottoposto a determinati trattamenti e terapie.
Lo stato di reclusione del paziente
in istituti di pena
non comporta per il medico
alcuna modifica dei doveri di
rispetto dei diritti e della dignità
dell'assistito.
Il compito del medico, individuato
dall'art.3 nella difesa e
rispetto della vita della salute fisica e psichica dell'uomo e sollievo della
sofferenza, non deve, pertanto, subire condizionamento
o modifiche in
relazione al fatto che il paziente si trovi in stato di
detenzione.
In tale precetto viene recepito il principio, che è
anche d'ordine costituzionale,
secondo cui tutti i cittadini
hanno pari dignità senza distinzione
di sesso, razza, lingua,
religione, opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali.
Alla luce di tale impostazione,
pertanto, il medico anche con riferimento
agli obblighi connessi con le sue specifiche funzioni, al rispetto delle quali
la norma fa espresso richiamo, non potrà contravvenire
ai suoi doveri deontologici che caratterizzano l'attività professionale nel
senso prima indicato.
CAPO IX - TRATTAMENTO MEDICO E LIBERTA' PERSONALE
Art. 50 Tortura e trattamenti disumani
Il medico non
deve in alcun modo o caso collaborare, partecipare o semplicemente presenziare ad atti esecutivi di pena di morte
o ad atti di
tortura o a trattamenti crudeli, disumani
o degradanti.
E’ vietato al medico di
praticare qualsiasi forma di
mutilazione sessuale femminile.
Commento:
Questo articolo è stato ampliato nella
sua formulazione inserendo tra i divieti
per il medico la collaborazione,
partecipazione ad atti di
tortura o a trattamenti crudeli e disumani
e degradanti allargandolo alla partecipazione ad atti esecutivi di pena di morte,
anche se il nostro ordinamento
penale non la prevede e recentemente in tal senso è stato modificato
anche l’ordinamento militare che la
stabiliva in caso di
guerra.
Questo dà il senso della linea di
pensiero e di condotta che a livello
legislativo e di Governo è stata assunta
nei confronti della pena di morte.
Il fatto, comunque, che il codice
abbia ritenuto, in questa nuova formulazione, di
esplicitare questo divieto di
presenziare ad atti esecutivi di pena di morte,
deve essere inteso come una volontà di
esplicitare questa posizione a livello sia nazionale che internazionale.
E’ noto, infatti, che alcuni Paesi, quali gli Stati Uniti, prevedono nel loro
ordinamento giudiziario
questa pena nonostante le prese di
posizione decise anche di organizzazioni mediche.
Continua a essere prevista la presenza di un medico in
situazioni di questo tipo e
soprattutto che non vengono poi irrogate efficaci azioni sanzionatorie
nei confronti di quei medici che
hanno partecipato a questo tipo di
attività.
Il senso dell’articolo, i divieti
che lo stesso pone e l’utilizzo dei termini collaborare, partecipare, presenziare tendono a rafforzare il divieto
posto al medico riguardo alla diretta,
ma anche indiretta, partecipazione ad
atti che comportino lesioni nei confronti del soggetto sottoposto a tortura o a
trattamento crudele.
L’ultimo comma inserito nell’attuale versione del codice di
deontologia medica che fa divieto
al medico di
praticare qualsiasi forma di
mutilazione sessuale femminile, risente della nuova struttura multirazziale
della società fenomeno che si sta incrementando anche nel nostro Paese e vuole
essere una espressione moderna di
rifiuto di qualunque tipo di
attività che pur con motivazioni di tipo
religioso-rituale, comunque è da ritenere illecito dal punto di vista etico-deontologico essendo l’infibulazione
una forma di mutilazione
inaccettabile.
La norma sancisce, in modo sinteticamente efficace, l'assoluta incompatibilità
dell'esercizio della medicina
con pratiche lesive della libertà, dignità
ed integrità della persona.
Pertanto, ove vengano effettuati trattamenti crudeli,
o disumani, o degradanti, il medico non
può fornire un avallo, anche indiretto,
agli stessi neanche con la sua presenza.
E' evidente che da un diverso
comportamento deriverebbe un vero e proprio snaturamento della professione.
Questo articolo traduce, in termini deontologici, la previsione dell'art.13
della Costituzione, 4° comma, ai sensi del quale è
punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a
restrizione di libertà.
Anche nei codici deontologici di altre
nazioni, ed in particolare di quelle
europee, sono rinvenibili norme analoghe a quella in esame, pur se nell'ambito
delle stesse sono rilevabili diversità
di articolazione.
I codici francese, spagnolo, portoghese e del Lussemburgo, ad
esempio, vietano al medico di
partecipare direttamente o indirettamente
a sevizie e trattamenti degradanti per la natura umana, quali che siano le
giustificazioni invocate, sia in tempo di pace
che in caso di guerra.
Il codice spagnolo estende il divieto
anche alle pratiche finalizzate alla manipolazione delle coscienze e alla diminuzione
della capacità di resistenza dell'individuo.
In Spagna e in Lussemburgo è fatto obbligo al medico di
sporgere denuncia all'autorità, qualora visitando un detenuto constati che questi abbia subito maltrattamenti o
trattamenti inumani o crudeli; il codice
lussemburghese specifica che è necessario il consenso dell'interessato e,
tuttavia, questo non è indispensabile
qualora lo stesso non sia in grado di
esprimere liberamente una decisione.
Secondo il codice portoghese , inoltre, il medico deve
impedire o denunciare al
proprio Ordine qualunque atto lesivo
della salute fisica o psichica dei detenuti della cura dei quali sia
responsabile.
Per quanto attiene, in particolare, all'obbligo del medico di
denunciare all'autorità giudiziaria
situazioni delittuose di
maltrattamenti o lesioni a reclusi dallo stesso rilevate, va rammentato che
tale obbligo è giuridicamente
fissato dalle norme del codice
penale di cui agli artt.361-362 e
365 riguardanti, rispettivamente, l'omessa denuncia da parte di
pubblico ufficiale, o di incaricato di
pubblico servizio e l'omissione di
referto.
Art. 51 Rifiuto consapevole di nutrirsi
Quando
una persona, sana di mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di
nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle conseguenze che tale decisione può
comportare sulle sue condizioni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili
conseguenze della propria decisione, il medico non
deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di
nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla.
Commento:
L’argomento trattato nell’articolo ha assunto in questa nuova formulazione
una valenza generale. Il precedente codice
prevedeva esclusivamente il caso del soggetto recluso presso istituti
penitenziari che prendesse appunto la decisione di
rifiutare di nutrirsi. La generalità dell’attuale formulazione che appunto prevede che una
qualunque persona sana di mente possa rifiutare volontariamente e consapevolmente di
nutrirsi, ci riporta a fenomeni ormai piuttosto abituali, soprattutto a livello
adolescenziale, che sempre più di frequente il medico si trova a dover affrontare. Questo articolo dà al medico una
serie di direttive
e linee guida che, da un lato, ribadiscono
il dovere di informare
il soggetto sulle conseguenze della sua azione e, dall’altro, sottolineano la
libertà del soggetto di assumersi
la responsabilità delle conseguenze della propria decisione laddove il medico non
è tenuto ad assumere iniziative di tipo
costrittivo. Si richiama, comunque, il dovere del medico di
continuare ad assistere il soggetto, nel rispetto del principio generale di
assistenza del sanitario.
L’impostazione dell’articolo è, peraltro, pienamente coerente
con le scelte operate nel codice in materia di consenso informato e a questo principio il medico
dovrà conformare il proprio comportamento.
CAPO X - ONORARI PROFESSIONALI
Art. 52 Onorari professionali
Nell'esercizio libero
professionale vale il principio generale dell'intesa diretta
tra medico e
cittadino. L'onorario
deve rispettare il minimo professionale approvato dall'Ordine
anche per le prestazioni svolte all'interno di
società di
professionisti o a favore della mutualità volontaria compresa
l'attività libero professionale intramoenia,
esercitata dai medici dipendenti
delle aziende ospedaliere e delle aziende sanitarie locali, che si configuri
come libera professione.
Il medico è
tenuto a far conoscere al cittadino il
suo onorario che va accettato preventivamente e, se possibile, sottoscritto da
entrambi.
I compensi per le prestazioni medico-chirurgiche non
possono essere subordinati ai
risultati delle prestazioni medesime.
Il medico è
tenuto non solo al rispetto della tariffa minima professionale, ma anche al
rispetto della tariffa massima stabilita da ciascun Ordine
provinciale con propria delibera, sulla base di
criteri definiti dalla Federazione Nazionale con proprio atto di indirizzo e
coordinamento.
Il medico può, in particolari circostanze, prestare gratuitamente la sua
opera, purchè tale comportamento non costituisca
concorrenza sleale o illecito accaparramento di
clientela.
Commento:
L’intero capo X costituito da un solo articolo disciplina
e chiarisce le problematiche concernenti il rispetto degli onorari
professionali previsti a tutela del decoro e della dignità
della professione. E’ da rilevare, in quanto riveste
uno degli aspetti più innovativi e coraggiosi del nuovo codice, la
previsione dell’istituzione da parte degli ordini
provinciali della tariffa massima da stabilirsi appunto da parte di
ciascun ordine sulla base di
criteri generali già definiti dalla Federazione nazionale con proprio atto di indirizzo e
coordinamento. E’ superfluo sottolineare la rilevanza di una
simile innovazione che costituisce una risposta responsabile del mondo ordinistico alle polemiche, spesso prive di
fondamento, nei confronti della professione circa la prevalenza degli interessi
economici.
I criteri stabiliti dalla FNOMCeO permetteranno,
attraverso un semplice meccanismo moltiplicatorio, di
stabilire una tariffa massima da parte di
ciascun ordine. E’ ovvio che la
tariffa sarà diversificata a seconda delle realtà locali cui va applicata, a
seconda dell’utilizzo o meno di
tecnologie moderne e sofisticate, a seconda o meno della qualità dell’atto
posto in essere dal professionista, a seconda della complessità professionale
della prestazione. L’art. 52 ha inteso specificare che la tariffa minima
vigente, che allo stato attuale viene determinata
attraverso un DPR, regolamenta non soltanto strettamente l’attività libero
professionale ma tutta quell’attività che può essere svolta all’interno di
società di professionisti, di mutue
volontarie e nell’ambito dell’attività libero professionale intramoenia.
Si è voluto in pratica responsabilizzare il medico
anche dipendente al rispetto
della tariffa minima allorchè svolga attività
configurabile comunque come libera professione. L’attuale tariffa minima per
gli onorari professionali è normata dalla legge 21
febbraio 1963 n. 244, formulata nel DPR 17 febbraio 1992, pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale n. 128 del 2 giugno 1992. E’ da sottolineare
infine che nell’art. 52 è anche disciplinato
con alcune avvertenze il principio che dà facoltà al medico di
prestare gratuitamente la propria opera a meno che tale comportamento non
costituisca concorrenza sleale o illecito accaparramento di
clientela.
CAPO XI - PUBBLICITÀ' IN
MATERIA SANITARIA E INFORMAZIONE AL PUBBLICO
Art. 53 Pubblicità in materia sanitaria
Sono vietate al
medico tutte le forme, dirette o
indirette, di
pubblicità personale o a vantaggio della struttura, pubblica o privata, nella
quale presta la sua opera.
Il medico è responsabile
dell’uso che si fa del suo nome, delle sue qualifiche professionali e delle sue
dichiarazioni.
Egli deve evitare, che attraverso organi di
stampa, strumenti televisivi e/o informatici, collaborazione a
inchieste e interventi televisivi, si concretizzi una condizione di
promozione e di
sfruttamento pubblicitario del suo nome o di altri
colleghi.
Commento:
Il capo XI affronta la delicata questione della pubblicità sanitaria.
L’intero capo è stato riformato, sono stati cioè
rielaborati tutti e quattro gli articoli che lo componevano. Decisamente
innovativi sono i primi due articoli che differenziano,
come non era stato fatto in passato, la pubblicità in materia sanitaria dalla
semplice informazione.
E’ questo un elemento di discrimine
delicatissimo che la normativa di legge,
finora disciplinante la materia,
non ha mai contribuito a chiarire. L’art. 53 sulla pubblicità in materia
sanitaria chiarisce come sia vietato un utilizzo di forme
pubblicitarie non corretto e uno sfruttamento pubblicitario dei successi
ottenuti. E’ precisato il divieto
al medico di tutte
le forme dirette o indirette di
pubblicità personale o a vantaggio della struttura presso cui
opera. Si vuole evitare quindi che vi
sia uno snaturamento della professione in senso commerciale proprio a salvaguardia della professione medica o
della struttura nella quale il medico
presta la sua opera. Questa formulazione degli articoli del capo XI intendono esprimere la precisa volontà dell’ordine
professionale di sopperire alle
oggettive carenze della normativa in materia. Come è
noto infatti la legge 175 del 1992 intendeva regolamentare una situazione di
assoluto disordine in
campo di pubblicità sanitaria,
ma in realtà ha finito con il burocratizzare il controllo della pubblicità in
materia sanitaria riducendo l’Ordine
professionale ad un ruolo notarile di
comportamenti scorretti, prevedendo, oltretutto, un sistema sanzionatorio
stabilito per legge che sottrae all’Ordine il
controllo.
A seguito della legge n. 42/99 è intervenuta una modifica
del regime sanzionatorio disciplinare
relativo alla pubblicità sanitaria.
Si è in buona sostanza inteso superare la rigidità che
la legge 175/92 introduceva, restituendo all’Ordine un
ruolo centrale di garante della
correttezza del comportamento dei medici in un
campo sicuramente in continuo sviluppo come quello della pubblicità e dell’informazione
sanitaria.
E’ recente, inoltre, la modifica
introdotta con la legge 14 ottobre 1999, n. 362, "Disposizioni urgenti in
materia sanitaria" che con l’art. 12 interviene sia sull’art. 1 che
sull’art. 4, 1° comma, della legge 5 febbraio 1992 n. 175, prevedendo che la
pubblicità sanitaria – dei singoli professionisti e delle case di cura,
gabinetti e ambulatori mono e polispecialistici
– sia consentita attraverso inserzioni su
"giornali quotidiani e
periodici di informazione".
Viene previsto cioè un ulteriore strumento informativo
del messaggio pubblicitario che peraltro – è da sottolineare – lascia
inalterata la normativa vigente in materia di nulla
osta, autorizzazioni e caratteristiche estetiche dei messaggi pubblicitari.
In riferimento al tema del controllo della pubblicità
sanitaria occorre sottolineare un’ulteriore parziale modifica
prevista dal D.Lgs n. 96 del 30 marzo 1999, le cui disposizioni
trovano applicazione dall’1.7.1999. A seguito dell’avvenuta entrata in vigore di questa
normativa, sono da considerare trasferite ai Comuni (almeno per le Regioni
appresso specificate) le funzioni amministrative concernenti la pubblicità
sanitaria di cui all’art. 118, comma
2, del D.Lgs n. 112 del 1998.
In buona sostanza, la competenza a rilasciare le autorizzazioni di cui
all’art. 5 della normativa della legge 175/92 è attribuita ai Comuni e non più
alle Regioni. La normativa, come specificamente riportato all’art. 1, si
applica alle Regioni Piemonte, Lombardia,
Veneto, Marche, Lazio, Molise, Campania, Puglia e Calabria.
Tale disposizione si spiega con
il fatto che le Regioni citate non avevano ancora provveduto
a emanare la legge regionale di cui
all’art. 3 della legge 8 giugno 1990, n. 142 e all’art. 4, comma 5 della legge
15 marzo 1997 n. 59 che individua
quali funzioni amministrative conferite alle Regioni dal decreto legislativo 31
marzo 1998 n. 112 sono mantenute in capo alle Regioni e quali sono trasferite o
delegate agli enti locali.
La citata legge 14 ottobre 1999 n. 362 non ha esplicitamente previsto
l’utilizzazione, come veicolo informativo
del messaggio pubblicitario, della rete Internet.
L’urgenza, comunque, di
fornire orientamenti su un tema di
interesse e di stretta contingenza –
vista la crescente utilizzazione del mezzo informatico
– ha indotto il Comitato Centrale della Federazione, che pure nell’art. 53 in
commento aveva già espresso una posizione, a ritenere praticabile la diffusione
di messaggi pubblicitari tramite
uno strumento informatico
quale Internet, nel rispetto, evidentemente, dei limiti previsti degli artt. 1 e 4 della legge n. 175/92.
Il sanitario dovrà richiedere all’Ordine
provinciale presso cui è iscritto il rilascio di
apposito nulla osta a garanzia della correttezza del messaggio proposto e della
rispondenza ai criteri di cui
alla legge 175/92 e D.M. 657/94.
Art. 54 Informazone
sanitaria
L’informazione
sanitaria non può assumere le caratteristiche della pubblicità commerciale.
Per consentire ai cittadini una
scelta libera e consapevole tra strutture, servizi e professionisti è indispensabile
che l’informazione,
con qualsiasi mezzo diffusa,
non sia arbitraria e discrezionale,
ma utile, veritiera, certificata con dati oggettivi e controllabili e previo
nulla osta rilasciato per iscritto dal Consiglio dell’Ordine
provinciale competente per territorio sulla base di
principi di indirizzo e
di coordinamento
della Federazione Nazionale.
Il medico che
partecipi a iniziative di
educazione alla salute, su temi corrispondenti alle sue conoscenze e
competenze, deve garantire, indipendentemente
dal mezzo impiegato, informazioni
scientificamente rigorose, obbiettive, prudenti (che non producano timori infondati,
spinte consumistiche o illusorie attese nella pubblica opinione) ed evitare,
anche indirettamente,
qualsiasi forma pubblicitaria personale o della struttura nella quale opera.
Commento:
Questo articolo delinea le
caratteristiche che deve assumere una informazione
sanitaria volta a fornire ai cittadini le
necessarie indicazioni al fine di una
scelta libera e consapevole tra strutture, servizi e professionisti. L’informazione
sanitaria deve rispondere all’intento di
realizzare la tutela della collettività e della salute. L’informazione
dovrà quindi rispondere a principi di veridicità,
dovrà essere certificata con dati oggettivi e controllabili e, in questo senso,
il consiglio dell’Ordine
rilasciando il nulla osta scritto attesterà la
sussistenza dei requisiti predetti. La necessità di tutela
come già detto della collettività è sottolineata laddove è previsto il caso in
cui il medico partecipi a iniziative di
educazione sanitaria.
Art. 55 Scoperte scientifiche
Il medico non
deve divulgare
notizie al pubblico su innovazioni in campo sanitario se non ancora accreditate
dalla comunità scientifica, al fine di non
suscitare infondate
attese e illusorie speranze.
Commento:
Lo stesso rigore che deve improntare l’attività pubblicitaria o informativa
del medico dovrà seguirsi nel caso di informazione
al pubblico di nuove scoperte o di
innovazioni in campo sanitario, allorquando non risultino ancora accreditate a
livello di comunità scientifica.
Evitare illusorie aspettative o comunque attese infondate è
un principio che informa
tutto l’impianto codicistico. Come già
detto le aspettative di vita e
di qualità della stessa, sono
aumentate e spesso si riscontra che movimenti di
opinione a sostegno di
terapie non validate, lungi dall’essere portatori di
benefici per la salute collettiva, spesso sono illusori, dannosi e privi di
riscontri scientifici.
Il comportamento da seguire, anche in caso di
scoperte scientifiche, deve essere improntato alla massima prudenza.
A tale riguardo, infatti, è individuato
nella comunità scientifica e professionale l'ambito da parte del quale deve
essere svolta la prima comunicazione delle scoperte, al fine di
consentire una preventiva verifica critica delle stesse da parte di chi ha
competenza per effettuarla.
Anche riguardo alla fattispecie, oggetto della norma in esame, appaiono significativi i principi di etica
medica espressi dalla Conferenza
Internazionale degli Ordini nel
1987 riguardo alla pubblicità delle scoperte scientifiche e ai sensi dei quali
"il medico ha il dovere di divulgare
anzitutto sulla stampa professionale le scoperte fatte o le conclusioni dei
propri studi scientifici in materia di diagnosi
o di terapia. Egli le sottoporrà al
giudizio critico dei colleghi
nelle forme appropriate prima di darne
notizia al pubblico non medico.
Ogni sfruttamento pubblicitario di un
successo medico a vantaggio di una
persona, gruppo e scuola è contrario all'etica medica".
Art. 56 Divieto di patrocinio
Il medico o
associazioni di medici non
devono concedere patrocinio e avallo a pubblicità per istituzioni e prodotti
sanitari e commerciali di esclusivo interesse
promozionale.
Commento:
Il capo XI relativo alla pubblicità in materia sanitaria e informazione
al pubblico si chiude con l’art. 56 che prevede il divieto di
patrocinio da parte di medici e di associazioni
di medici
circa l’avallo pubblicitario per istituzioni o prodotti sanitari e commerciali di
esclusivo interesse promozionale. E’ interessante notare che l’art.56 estende
anche alle associazioni di medici
questo divieto, contribuendo a
fare chiarezza su comportamenti che l’attuale costume della comunicazione e
della pubblicità ha visto porre in essere, in maniera forse troppo disinvolta,
da parte di alcune associazioni professionali.
La scissione e l'incompatibilità tra esercizio della professione medica e
attività commerciale indispensabili
anche per garantire l'effettiva indipendenza
e libertà professionale, sancita dall'art. 4 del codice, trovano un'espressa, ulteriore conferma nella norma posta
dal presente articolo.
Il divieto, posto ai medici, di
concedere il proprio patrocinio per le campagne pubblicitarie promozionali, di
prodotti e istituzioni sanitarie costituisce, inoltre, l'attuazione anche di un
principio di etica medica
fissato nel medesimo senso a livello europeo dalla Conferenza internazionale
degli Ordini.
Va segnalato che il divieto
espresso dall'art. 56, secondo alcuni, non riguarderebbe l'attività di
attestazione da parte di medici di
caratteristiche obiettive che connotano istituti o prodotti sanitari. Tale tesi
troverebbe fondamento nella stessa formulazione dell'articolo che fa
riferimento a pubblicità di esclusivo interesse promozionale e commerciale fra le
quali non sarebbero ricomprensibili le suddette
attestazioni dalle quali deriverebbe alle iniziative in questione una
connotazione di natura anche informativa.
titolo 4°- RAPPORTI CON I COLLEGHI
CAPO I -
SOLIDARIETA' TRA MEDICI
Art. 57 Rispetto reciproco
Il rapporto tra i medici deve
ispirarsi ai principi del reciproco rispetto e della considerazione della
rispettiva attività professionale.
Il contrasto di opinione non deve violare i
principi di un
collegiale comportamento e di un
civile dibattito.
Il medico deve
assistere i colleghi senza fini di lucro,
salvo il diritto
al recupero delle spese sostenute.
Il medico deve
essere solidale nei confronti dei colleghi sottoposti a
ingiuste accuse.
Commento:
Questo articolo riunisce in sé alcune
fattispecie che nel codice del
1995 venivano affrontate analiticamente.
In realtà l’attuale formulazione sembra più rispondente al principio generale
della solidarietà. Sono infatti sottolineate differenti
situazioni tutte convergenti, verso il rispetto di questo
principio. Il senso della solidarietà che non deve essere inteso negativamente
come atteggiamento corporativo fra individui
facenti parte dello stesso gruppo professionale, bensì, come patto
di collaborazione nell’esclusivo
interesse del paziente.
Nel commento all'art. 1 si è visto che fra i principi cardine
della deontologia professionale medica
rientra il cosiddetto "spirito di
colleganza": solidarietà fra gli individui
che fanno parte di uno
stesso gruppo sociale.
E' proprio l'appartenenza ad una stessa comunità che fa nascere o dovrebbe far
nascere il sentimento di
reciproca considerazione e di comune
sentire.
E' necessario, peraltro, che lo spirito di colleganza,
che ha una valenza senz'altro positiva in quanto porta
alla collaborazione fra colleghi e ad un mutuo soccorso, non degeneri in forme
negative che vengono definite "di
corporativismo" (l'appartenenza alla categoria professionale finisce con
il divenire il valore più
importante anche rispetto alle esigenze e alla necessità della generalità dei
cittadini).
Lo spirito di colleganza deve essere
correttamente inteso come una vera solidarietà tra colleghi, non solo dal punto
di vista professionale ma anche
sociale e familiare. Un aspetto importante è costituito dal rispetto delle
altrui opinioni professionali che possono non collimare fra colleghi. Tali divergenze
non devono mai divenire occasioni di attrito
di carattere personale, ma
devono, anzi, costituire opportunità di
confronto civile di
opinioni.
L'attività professionale medica, pur
essendo ormai basata su elementi di
scientificità, può non sempre comportare una sola soluzione e un
solo corretto approccio alla malattia.
Tale momento di confronto è
particolarmente stimolante in quanto permette ai
colleghi di confrontare, con il
necessario rispetto reciproco, le rispettive esperienze arricchendosi
vicendevolmente. Può accadere, peraltro, che queste differenze
di opinioni portino invece a contrasti di
carattere personale. Litigi e gravi incomprensioni costituiscono,
indubbiamente, una grave violazione del principio di
colleganza che oltre a rendere più difficile
il lavoro dei medici,
apportano un indubbio discredito
all'intera categoria che vede lesa da questi fatti la dignità
stessa della professione.
E' opportuno fare un breve cenno sul problema della competenza disciplinare
dell'Ordine sui medici
impiegati in una Pubblica Amministrazione. Ai sensi dell'art.10 del DLCPS
13.9.1946, n.233, l'Ordine è competente
disciplinarmente, in questi casi,
solo limitatamente all'esercizio libero professionale. Questa normativa ha
portato alcuni a ritenere inibito il potere disciplinare
dell'Ordine nei confronti dei medici dipendenti
(si pensi ad esempio ai medici ospedalieri)
che svolgono la propria opera interamente nell'ambito del rapporto d'impiego
che li lega al Servizio Sanitario Nazionale. In realtà, invece, la tesi
prevalente è quella che ritiene l'Ordine
competente, da un punto di vista disciplinare,
anche sui medici dipendenti
quando il comportamento scorretto posto in essere non
riguardi strettamente il
rapporto di lavoro con la P.A. ma
derivi dalla violazione di regole
di comportamento concernenti
l'esercizio della professione medica.
Il caso di un grave diverbio
fra colleghi che, ad esempio, getti discredito sull'intera categoria medica
costituisce, indubbiamente, una situazione in cui l'Ordine ha
il diritto-dovere di
intervenire disciplinarmente anche su
medici "impiegati in una
Pubblica Amministrazione".
Rientra nel vasto quadro del principio di
colleganza anche la necessaria solidarietà che deve sussistere fra i colleghi.
L'elemento solidaristico ha, da sempre,
caratterizzato i rapporti fra gli appartenenti ad una stessa categoria o gruppo
sociale. Questo aspetto esiste sin dal sorgere delle libere professioni i cui
esponenti hanno sempre tenuto ben presente la necessità di
esprimere reciproca solidarietà e di
organizzarsi per creare forme di assistenza.
La solidarietà nel gruppo professionale ha sempre riguardato sia l'aspetto
familiare (attraverso l'aiuto ai congiunti del professionista deceduto o in
grave difficoltà) sia l'aspetto
professionale (la sostituzione dei colleghi ammalati o comunque
non in grado di far fronte ai propri
impegni).
E' opportuno, peraltro, sottolineare che nell'odierna
società le esigenze di
solidarietà all'interno di una
categoria vengono sempre più frequentemente assicurate attraverso l'istituzione
di appositi enti previdenziali e
assistenziali che, autofinanziati dagli stessi professionisti,
hanno lo scopo di garantire ai propri
iscritti e ai loro familiari il mantenimento di un
certo livello di vita anche nei momenti di difficoltà.
Per quanto riguarda ancora l’ultimo comma dell'articolo in commento l'interesse
del "legislatore deontologico" è quello di
invitare alla solidarietà ed all'aiuto i medici nei
confronti di colleghi accusati
ingiustamente. Questo avviene più spesso di quanto
non si creda, specialmente in riferimento alle
campagne (più giornalistiche che giudiziarie)
che tendono a colpevolizzare il medico per
tutte le varie deficienze, spesso solo di
carattere organizzativo e burocratico che ancora caratterizzano la sanità
italiana. Non si vuole invitare i medici a
forme di omertà a favore di
colleghi immeritevoli; si intende invece evidenziare la necessità che la
categoria sappia dimostrarsi
solidale con i medici
quando vengono accusati in modo palesemente ingiusto.
Anche questo articolo costituisce una esplicita
applicazione del principio di
colleganza e, richiamando una tradizione
antichissima, prescrive che il medico
presti la propria assistenza gratuitamente ai colleghi.
Il codice deontologico vuole,
in sostanza, affermare che il medico non
deve richiedere un compenso al collega per lo svolgimento della propria opera professionale,
in relazione alla solidarietà che deve legare i
componenti lo stesso gruppo professionale.
E' interessante notare che, nell'ambito del diritto
questa prassi non viene considerata una
"donazione" in senso tecnico (art.769 c.c.) ma semplicemente un atto
a titolo gratuito. Da un punto di vista
giuridico è atto a titolo
gratuito quello in cui, pur riscontrandosi un beneficio in chi ne gode (c'è una
prestazione priva di
controprestazione), manca un correlativo depauperamento del patrimonio di chi lo
pone in essere e non vi è nemmeno aumento del patrimonio di chi ne benefici.
Art. 58 Rapporti con il medico curante
Il medico che
presti la propria opera in situazioni di urgenza
o per ragioni di specializzazione
a un ammalato in cura presso altro collega, acquisito il consenso per il
trattamento dei dati sensibili dal cittadino o
dal legale rappresentante, è tenuto a dare comunicazione al medico
curante o ad altro medico
eventualmente indicato
dal paziente, degli indirizzi diagnostico-terapeutici
attuati e delle valutazioni cliniche anche nel caso di
ricovero ospedaliero.
Commento:
L’art. 58 che disciplina i rapporti del medico curante deve essere letto alla luce del principio di
solidarietà e di colleganza base del corretto rapporto tra colleghi. E’ infatti sottolineata la necessità di un
vero ed effettivo scambio di
comunicazione tra il medico
curante e l’altro medico
eventualmente chiamato alla cura del paziente. E’ appena il caso di
evidenziare l’aggiornamento del testo dell’articolo alle nuove disposizioni
previste dalla L. 675 del 1996 per la tutela dei dati
personali . In questo caso è ovvio che i due
professionisti debbano acquisire il consenso del cittadino o
del suo legale rappresentante per quanto riguarda la trasmissione dei dati
sensibili concernenti la salute del cittadino
stesso da un collega all’altro.
Questo articolo stabilisce alcuni principi deontologici cui ispirarsi quando,
per svariati motivi, (esplicita volontà del paziente, eventuale irreperibilità
del medico curante), un medico subentri ad un altro collega nel prestare le cure
all'ammalato.
Entrano qui in gioco i principi base della deontologia relativi
allo spirito di
colleganza e all'informativa
fra i colleghi. Il medico
subentrante deve cioè comunicare al collega il proprio
orientamento diagnostico-terapeutico
sul caso e le proprie valutazioni.
Questo comportamento può essere derogato solo se esista
un'esplicita opposizione del malato che, eventualmente, vuole rinunciare
all'operato professionale del proprio medico
curante.
La deroga è giustificata dal fatto che il paziente ha sempre e comunque il diritto di
scegliere in piena libertà il proprio medico di
fiducia. Si ricorda, a questo proposito, che il diritto
alla libera scelta del medico è
affermato anche dalla legge 833/78 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.
Va sottolineato inoltre che l'opposizione del paziente
a che il medico subentrante comunichi
i propri orientamenti sul caso al medico
curante deve essere esplicitamente dichiarata
e non può essere ritenuta implicita facendo riferimento, ad esempio, ad uno
stato d'animo del paziente stesso.
CAPO II- CONSULENZA E CONSULTO
Art. 59 Consulenza e consulto
Il medico
curante deve proporre il consulto con altro collega o la consulenza
presso idonee strutture di
specifica qualificazione, ponendo gli adeguati quesiti e fornendo la
documentazione in suo possesso, qualora la complessità del caso
clinico o l'interesse del malato esigano il ricorso a
specifiche competenze specialistiche diagnostiche
e/o terapeutiche.
Il medico, che
sia di
contrario avviso, qualora il consulto sia richiesto dal malato o dai suoi
familiari, può astenersi dal parteciparvi fornendo, comunque,
tutte le informazioni
e l'eventuale documentazione relativa al caso.
Il modo e i tempi per la consulenza sono stabiliti tra il consulente e il
curante secondo le regole della collegiale
collaborazione.
Commento:
L’art. 59, in modo più sintetico rispetto alle precedenti stesure del codice di
deontologia medica, disciplina
i rapporti che devono intercorrere tra il curante e il medico
chiamato a fornire la propria consulenza. Ovviamente tali rapporti investono la
figura del cittadino –
malato di cui devono essere
sempre e comunque rispettati il diritto
alla riservatezza e la libertà di
scelta.
Abbiamo già visto negli articoli precedenti i principi che devono
caratterizzare l'operato dei medici
nell'ambito dei rapporti fra colleghi che si occupano, per vari motivi di uno
stesso caso. L'articolo in commento, però, prevede qualcosa di diverso in quanto pone a carico del medico
curante non la semplice facoltà, ma l'obbligo di
proporre una consulenza con un altro collega o presso idonea struttura
specialistica quando sia necessario il ricorso a peculiari e adeguate
competenze.
E' questa una situazione in cui viene affidata al medico una
responsabilità particolarmente delicata cioè quella di
"farsi giudice di se
stesso" e della propria inadeguatezza a far fronte da solo a un caso
clinico particolarmente difficile.
Questa situazione non deve essere interpretata come dimostrazione
di scarsa cultura del medico
(considerando l'enorme vastità dell'attuale sapere medico e la
sua sempre più necessaria specializzazione) ma anzi come una prova di
responsabilità e di
conoscenza delle gravi conseguenze che può avere una diagnosi
e quindi una terapia non
perfettamente adeguate al caso.
Sarà necessario, ovviamente, anche il consenso del paziente considerando che,
sia l'art. 32, secondo comma della Costituzione, "nessuno può essere
obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione
di legge" sia la stessa legge 833/78 e sia successivi interventi normativi
riconoscono il diritto al paziente di
scegliere il medico e il luogo dove
vogliono essere curati. E' ovvio, però, che in questo campo è enorme la discrezionalità
del medico avendo egli la
facoltà di suggerire e consigliare
con la necessaria competenza legata al suo specifico ruolo professionale.
Non esistono indicazioni e tanto meno direttive
precise in ordine alla modalità di
svolgimento della consulenza essendo opportuno lasciare ai due professionisti
interessati il compito di
accordarsi per garantire il miglior successo dell'iniziativa nell'interesse
esclusivo del paziente. Occorre tenere presente, infatti, che il fine della
consulenza è quello di pervenire,
tramite il collegiale confronto fra colleghi, ad una diagnosi
e quindi a
un indirizzo terapeutico che
permetta di fornire al malato la
migliore cura e assistenza possibili.
Resta affidata allo spirito di
collaborazione e al reciproco rispetto fra medico
curante e consulente, normalmente un medico
specialista, la scelta delle modalità operative ma
anche temporali attraverso le quali svolgere la consulenza. E' ovvio che la
presenza contemporanea di tutti
i medici interessati rappresenta la soluzione migliore per garantire l'esame
approfondito ed informato
del caso.
L’articolo vuole significare che il rapporto intercorrente fra medico
curante e consulente è assolutamente paritario quale che sia il prestigio
professionale eventualmente riconosciuto allo specialista.
I colleghi coinvolti devono scambiarsi, nel più assoluto rispetto dei loro
convincimenti, opinioni e conoscenze atte a favorire una corretta diagnosi
che permetta di
assicurare al malato le cure necessarie. Non è possibile, infatti, sottovalutare
il ruolo del medico curante che,
attraverso la propria conoscenza del malato e della sua situazione pregressa, è in grado di
fornire dati illuminanti anche al consulente che non ha avuto, ovviamente, la
possibilità di seguire la malattia sin
dal suo primo manifestarsi.
Art. 60 Divergenza tra curante e consulente
I giudizi
espressi in sede di
consulto o di consulenza
devono rispettare la dignità
sia del curante che del consulente.
E' affidato al medico
curante il compito di
attuare l'indirizzo
terapeutico concordato con il consulente e
eventualmente adeguarlo alle situazioni emergenti.
In caso di divergenza
di opinioni il curante può
richiedere altra consulenza.
Lo specialista o consulente che visiti un ammalato in assenza del curante deve fornire una dettagliata relazione diagnostica
e l'indirizzo
terapeutico consigliato.
Commento:
L’articolo 60 sempre nell’ambito dei rapporti tra colleghi cerca di
prevenire l’eventuale insorgere di divergenze
tra medico curante e consulente.
Si potrebbe dire che mentre l’articolo
precedente disciplina l’aspetto
"fisiologico" del rapporto tra i colleghi coinvolti, l’articolo in
commento ne disciplina gli eventuali
aspetti "patologici".
Il rapporto fra il medico
curante e il consulente nella formulazione del giudizio diagnostico-terapeutico
deve essere improntato a un sincero spirito di
collaborazione.
La personalità magari marcata o il prestigio legato ai titoli accademici o
all'età non devono portare ad una prevalenza dell'uno sull'altro. In buona
sostanza il giudizio deve rispettare le
personalità dei medici .
L'articolo stabilisce, inoltre, che l'opera del medico
curante non si arresta di certo
al momento dell'effettuazione della consulenza, dovendo essere integrata dal
compito di valutarne l'esito: è
facoltà del curante, qualora le opinioni siano divergenti,
di richiedere un'ulteriore consulenza per superare eventuali persistenti
dubbi.
Qualora la richiesta di ulteriore consulenza non fosse accolta si rientra in uno
dei casi in cui viene ad infrangersi il rapporto fiduciario con il proprio
paziente ed è, pertanto, prevista la facoltà per il medico
curante stesso di rinunciare all'incarico
professionale
Si sottolinea l’obbligo del consulente che visita il paziente di
fornire una dettagliata relazione diagnostica
sul caso rispondendo in modo esauriente e chiaro anche ai quesiti propostigli.
Dalla relazione diagnostica
deve scaturire logicamente l'indirizzo
terapeutico consigliato per il caso in esame.
E' opportuno sottolineare che l'uso della dizione
"indirizzo terapeutico
consigliato" fa trasparire ancora una volta la preoccupazione del
legislatore deontologico di
salvaguardare la correttezza dei rapporti fra curante e consulente nel rispetto
dell'attività di entrambi.
In conclusione i rapporti tra medico
curante e consulente devono tendere alla applicazione di quei
principi di rispetto, lealtà cui
deve essere improntato ogni rapporto tra colleghi.
Si tratta di principi che, lungi
dall’essere considerati superati, acquistano oggi in un contesto
socio-sanitario difficile,
maggiore valenza, divenendo
elementi qualificanti dell’attività professionale del medico.
CAPO III - ALTRI RAPPORTI TRA MEDICI
Art. 61 Supplenza
Il medico che
sostituisce nell'attività professionale un collega è
tenuto, cessata la supplenza, a fornire al collega sostituito le informazioni
cliniche relative ai malati sino allora assistiti, al fine di
assicurare la continuità terapeutica.
Commento:
vIl capo
III delinea quelli che devono essere i corretti rapporti tra colleghi medici. Si
tratta di tre articoli , dal 61 al 63, che evidenziano quei principi di
solidarietà e collegialità alla base dell’intera normazione deontologica e che
nel tempo mantengono una connotazione di
attualità.
L’art. 61 "Supplenza" è un articolo di
carattere generale. Viene esplicitato in primo luogo
uno degli elementi fondamentali del dovere di
assistenza del medico,
quello cioè di assicurare la
continuità terapeutica a beneficio del malato assistito, allorquando subentri
un sostituto.
Seppure non chiaramente esplicitata, come
nell’articolo seguente, la continuità terapeutica potrà essere assicurata solo
quando il medico sostituito metterà a disposizione
del collega sostituto la documentazione clinica dell’assistito.
E’ questa una indicazione
comportamentale che, seppure ovvia, si è ritenuto di
sottolineare anche al fine di
richiamare il medico alla
diligenza nella registrazione dei
dati clinici e delle indicazioni
terapeutiche.
La prestazione d'opera intellettuale ha carattere personale: l'art. 2232 del
c.c. sancisce questo principio prevedendo per altro limiti
entro i quali è possibile derogarvi. Per quanto riguarda strettamente la
professione medica è
opportuno ricordare che non sono previste limitazioni relativamente alle
prestazioni del medico
rientrando testualmente nell'esercizio della professione tutte le attività
aventi una finalità di cura, diagnosi
e terapia. Da questo discende
la piena legittimità della sostituzione fra due medici
essendo entrambi abilitati all'esercizio della medesima attività professionale.
E' invece, ovviamente, assolutamente vietata (cfr. oltre il già citato
art. 2232 c.c. anche la norma di cui
all'art. 348 c.p. esercizio abusivo della professione) la sostituzione del medico con
persona non abilitata all'esercizio della professione.
La sostituzione fra medici può
avvenire anche nel campo dell'attività strettamente libero professionale ma ha
trovato applicazione principalmente nell'ambito dei rapporti sia di
carattere convenzionale che di dipendenza
con il SSN.
Per quanto riguarda la disciplina
delle sostituzioni è appositamente stabilita nelle convenzioni stipulate fra le
parti. In relazione, invece, allo svolgimento del rapporto di impiego
pubblico la sostituzione fra colleghi è disciplinata
dai normali principi generali concernenti lo stato giuridico dei dipendenti
che fanno obbligo di
compiere le prestazioni inerenti alla propria posizione funzionale.
La sostituzione di un
professionista con un altro nei rapporti con i pazienti può rivestire carattere
di estrema delicatezza, stante la necessità di
rispettare la fiducia e le esigenze del paziente stesso.
Gli accordi per la convenzione dei
medici di medicina
generale prevedono la libera scelta del proprio sostituto da parte del medico che
deve interrompere per i più vari motivi la propria attività. Questa disposizione
può essere agevolmente spiegata tenendo presente che non vi è miglior giudice del
medico stesso per scegliere un
collega adatto a sostituirlo sia pure temporaneamente.
L'articolo in commento, affrontando a livello generale il tema della supplenza
e quindi della sostituzione fra
medici, prevede l'obbligo
deontologico a carico del sostituto di
fornire al sostituito, al termine della supplenza, tutte le informazioni
cliniche relative ai malati assistiti. E' chiaro, infatti, che specialmente
quando la sostituzione non sia di
brevissima durata molti dati e molte informazioni
possono essere mutati rispetto alla situazione pregressa. Nel
quadro di una
necessaria informativa
fra colleghi è assolutamente necessario quindi che il
medico sostituito venga a
conoscenza di questi nuovi dati per
riprendere la propria attività con le garanzie necessarie per la tranquillità
dei pazienti assistiti.
CAPO III - ALTRI RAPPORTI TRA MEDICI
Art. 62 Medico curante e ospedaliero
Tra medico
curante e medici
operanti nelle strutture pubbliche e private, anche per assicurare la corretta informazione
all’ammalato, deve sussistere, nel rispetto
dell’autonomia e del diritto
alla riservatezza, un rapporto di
consultazione, di
collaborazione e di informazione
reciproca al fine di
garantire coerenza e continuità diagnostico-terapeutica.
Commento:
Questo articolo ha allargato il
proprio ambito applicativo allorquando si è inteso trattare dei rapporti tra medico
curante e medico operante nelle
strutture pubbliche e private e non solo in quelle ospedaliere come nel codice del
1995.
Il contesto affrontato dall’articolo è forse quello più "classico" in
cui si esplicano i rapporti tra medici.
L’articolo si richiama ai principi generali di
rispetto reciproco e, soprattutto, di pari
considerazioni della rispettiva attività professionale, al di fuori di
qualunque diversa valutazione
derivante dal possesso di titoli
accademici o di specializzazione.
E’ un forte richiamo, nell’interesse del malato, a un
impegno comune.
In questo senso si fa rinvio al diritto
alla riservatezza che pur essendo elemento etico indiscutibile,
vede recentemente rafforzata la propria posizione a seguito della
normativa della legge 675/96, già citata, da cui discende
una maggiore consapevolezza di questo
diritto da parte della pubblica
opinione.
Art. 63 Giudizio clinico- Rispetto della professionalità
I giudizi
clinici comunque formulati, durante la degenza in
reparti clinico-ospedalieri e in case di cura
private e anche dopo la dimissione
del malato, devono essere espressi senza ledere la reputazione professionale
dei medici
curanti.
La stessa condotta deve mantenere il medico
curante dopo la dimissione
del malato.
Commento:
L’art. 63 analizza una fattispecie deontologicamente
riprovevole, quella dell’eventuale apprezzamento non corretto nei confronti del
medico curante da parte dei medici delle strutture ospedaliere o private. Si tratta di un
comportamento che lede il principio di
colleganza che deve sempre improntare il rapporto tra colleghi.
Le eventuali divergenze riguardo a
scelte terapeutiche dovrebbero inserirsi sempre all’interno di un dialogo
privo di elementi di
conflittualità in funzione del benessere della persona.
I principi di rispetto e collaborazione cui devono essere improntati i rapporti fra medico
curante e medici ospedalieri trovano applicazione in ogni occasione e in ogni ambito. Il codice
deontologico, attraverso la norma in commento, si sofferma specificatamente
sulla questione estremamente delicata della
formulazione (sia essa in forma scritta o semplicemente verbale) dei giudizi
clinici. Tali giudizi
riguardanti il malato durante il periodo di
degenza ospedaliera non devono essere occasione per
svilire la personalità e la professionalità del medico
curante.
E' ovvio che in qualche caso gli orientamenti e le cure prestate dal medico
curante possano essere ritenute non completamente
rispondenti alle necessità del malato o addirittura
errati. Queste eventuali divergenze
di opinioni non devono però in nessun modo alimentari dubbi
che ledano la professionalità del medico
curante che, magari, proprio per uno spiccato senso di
responsabilità ha ritenuto necessario chiedere il ricovero del proprio paziente
per assicurargli la migliore assistenza possibile.
Può succedere, a volte, che, di fronte
al malato stesso, i medici del
reparto ospedaliero esprimano giudizi
clinici che possono porre in cattiva luce la figura professionale del medico
curante. Non devono certamente essere nascosti eventuali errori, ma è
necessario che i medici
ospedalieri sappiano comprendere le difficoltà
che possono riscontrarsi per il medico
curante nell'esprimere una diagnosi
formulata senza l'ausilio di
moderne tecnologie.
E' necessario formulare giudici
clinici obiettivi e rispondenti al singolo caso ma è obbligo deontologico non
avvilire la professionalità del medico
curante che ha diritto di
mantenere intatta la propria reputazione nei confronti dei pazienti verso i
quali comunque ha prestato la propria opera.
A questo obbligo a carico dei medici
ospedalieri e delle Case di cura
corrisponde il correlativo dovere del medico
curante che, dopo la dimissione
del proprio paziente, non deve esprimere giudizi
scorretti e di infondata
critica nei confronti dell'opera prestata dai colleghi.
La norma deontologica non vuole, peraltro, essere un invito ad una "sorta di omertà"
nei confronti dei colleghi che sbagliano ma costituisce solo un invito al
reciproco rispetto. Si vuole contrastare, in buona sostanza, la tendenza, che a
volte si manifesta fra colleghi, di
avvilire l'operato degli altri quasi a voler far
risaltare, per contrasto, la propria competenza professionale. Occorre essere
consapevoli che in campo medico
nessuno è depositario della verità assoluta.
CAPO IV - MEDICINA LEGALE
Art. 64 Compiti e funzioni medico-legali
Nell'espletamento dei compiti e
delle funzioni di natura
medico
legale, il medico deve
essere consapevole delle gravi implicazioni penali, civili,
amministrative e assicurative che tali compiti e funzioni possono
comportare e deve procedere, sul piano tecnico, in modo da soddisfare
le esigenze giuridiche
attinenti al caso in esame nel rispetto della verità scientifica, dei diritti
della persona e delle norme del presente Codice di
Deontologia Medica.
Il medico
curante non può svolgere funzioni medico-legali di ufficio
o di
controparte in casi che interessano la persona da lui assistita .
Commento:
La specificità dell’attività medico-legale responsabilizza il medico nei
confronti delle implicazioni penali, civili, amministrative, assicurative che
ne discendono. Non si tratta
solo di un richiamo rivolto a una categoria di medici
gravati da doveri che esulano dal quotidiano
rapporto medico-paziente.
L'insegnamento universitario della medicina
legale ha lo scopo, tra l’altro, di porre
ogni medico in grado di
conoscere i complessi rapporti del diritto
con la realtà biologica. Qualsiasi medico,
anche quello non esercente in senso stretto la medicina
legale, deve essere pertanto in grado di poter
adempiere i propri doveri legali e morali nell'esercizio dell'attività
professionale sempre più complessa nei suoi aspetti pubblicistici.
Evidentemente nell’ambito del reciproco rispetto che eviti che l’eventuale disparità
di opinioni si traduca nello svilimento della competenza
professionale dei colleghi.
L'importanza della medicina
legale è stata affermata dalla legge di
riforma sanitaria 833/78 che, all'art. 14 lett. c) attribuisce alle ASL
"gli accertamenti, le certificazioni ed ogni altra prestazione medico
legale spettante al SSN" e trova riscontro nel codice deontologico
che impone al medico,
prima di tutto, di essere
sempre consapevole delle conseguenze penali, civili, amministrative e
assicurative che possono derivare da ogni suo atto.
L'attività medico legale specialistica
deve essere finalizzata allo scopo di
fornire esaurienti risposte alle esigenze giuridiche
riguardanti il caso in esame. Si ricorda che la falsa perizia costituisce, fra
l'altro, reato penale ai sensi dell'art. 373. c.p.
Si ricorda che il medico
legale, nell’espletamento dei suoi compiti, deve evitare di
utilizzare espressioni lesive della dignità
dei colleghi.
Art. 65 Visite fiscali
Nell’esercizio delle funzioni di
controllo, il medico:
- deve far conoscere al soggetto sottoposto all'accertamento la propria
qualifica e la propria funzione;
- non deve rendere palesi al soggetto le proprie valutazioni in merito alla diagnosi
e alla terapia.
In situazione di urgenza
o di
emergenza clinica il medico di
controllo deve adottare le necessarie misure, a tutela del malato, dandone
sollecita comunicazione al medico
curante.
Commento:
Questo articolo è stato snellito nella
sua formulazione e tratta delle attività di
controllo sullo stato di salute
del cittadino affidate al medico. La
necessità di trattare la fattispecie
nella prospettiva etico-deontologica nasce dalla
particolarità che viene a instaurarsi tra il
professionista e il malato soggetto al controllo. Sembrano, infatti, in questo rapporto più sfumate le finalità terapeutiche
dell’intervento medico e
forse rafforzata la necessità di una valutazione
globale della condizione di salute
in cui versa la persona sottoposta a controllo.
Estremamente delicata è la funzione del medico
incaricato di visite fiscali cioè
nell'ambito del controllo delle assenze per infermità dei lavoratori.
Come è noto dopo la legge di
riforma sanitaria 833/78 le funzioni di medicina
legale fra le quali è tradizionalmente
compreso l'accertamento dello stato psico fisico del
lavoratore sono state demandate alle ASL. E' da rilevare che tale previsione
normativa ha trovato nella pratica, un'applicazione estremamente
difforme a causa principalmente
delle legislazioni regionali che sono intervenute in modo non omogeneo
sull'intero territorio nazionale. L'art. 8 della legge 27 giugno 1981 n. 331 ha
stabilito che fra le ASL e l'INPS dovesse essere disciplinata
l'effettuazione dei controlli attraverso convenzioni stipulate sulla base di
appositi schema-tipo elaborati fra l'INPS e le regioni e approvate con Decreto
del Ministro della Sanità. Ulteriori ritardi nel
dare attuazione anche a questa normativa hanno indotto il Parlamento ad
approvare la legge 638/1983 che all'art. 5 ha praticamente creato un sistema di
"doppio binario" per cui gli accertamenti medico
legali possono essere svolti nei confronti dei lavoratori dipendenti
o direttamente dalle ASL su
richiesta dell'INPS o del datore di lavoro
o dall'INPS che può disporre
la visita d'ufficio o su richiesta degli altri istituti previdenziali o dei
datori di lavoro.
Le convenzioni fra ASL e INPS, già previste dalla legge 331/1981, sono infine
state realizzate in virtù della successiva legge 638/83 sulla
base di uno
schema-tipo formulato dal Ministro della Sanità di
concerto con quello del Lavoro (art. 5, nono comma, legge 638/83).
Lo schema-tipo di convenzione è stato
emanato dal Ministro della Sanità con DM 26 febbraio 1984 e modificato
con successivo DM 8 gennaio 1985.E' importante ancora sottolineare
che l'art. 5 della più volte citata legge 638/83 stabilisce al comma 12 che
"per l'effettuazione delle visite mediche di
controllo dei lavoratori l'INPS, sentiti gli Ordini dei
Medici, istituisce presso le
proprie sede liste speciali formate da medici a
rapporto di impiego con Pubbliche
Amministrazioni e da medici
liberi professionisti ai quali possono far ricorso gli istituti previdenziali o
i datori di lavoro".
Al comma 13 dello stesso art. 5 legge 638/83, è stabilito che con Decreto del
Ministro del Lavoro di
concerto con il Ministro della Sanità, sentiti la FNOMCeO
e il Consiglio di amministrazione
dell'INPS, sono stabilite le modalità per la disciplina
e l'attuazione dei controlli e i compensi spettanti ai medici.
Tale Decreto è stato poi effettivamente emanato in data 15 luglio 1986 e
costituisce un fondamentale presupposto per il corretto svolgimento degli accertamenti medico legali.
Questo lungo excursus normativo si è reso necessario per dare un quadro,
possibilmente abbastanza chiaro, dei provvedimenti
legislativi che dettano la disciplina
per quanto riguarda lo svolgimento delle visite mediche di
controllo. E' chiaro che tali disposizioni
sono fondamentali per il medico di questo
settore che è chiamato a conoscerle e a rispettarle nell'interesse suo
personale e di quello dei lavoratori.
Il codice deontologico,
muovendosi da un diverso
punto di riferimento rispetto a
quello strettamente normativo, si preoccupa di
fornire alcune indicazioni
concernenti principalmente il rapporto professionale fra il "medico
fiscale" e il paziente sottoposto a controllo. Gli orientamenti
deontologici contenuti nell'articolo in commento non vanno certo a sovrapporsi
o peggio a contrastare le disposizioni
di legge vigenti in questa
materia, ma costituiscono applicazione dei tradizionali
principi di correttezza, colleganza
e informazione sui quali ci siamo più volte soffermati in questo commentario.
E' stabilita innanzi tutto la necessità per il medico di far
conoscere al soggetto sottoposto a controllo la propria qualifica e la propria
funzione. A questo riguardo si sottolinea che lo
schema tipo di convenzione tra ASL e
INPS di cui abbiamo già parlato,
espressamente prevede che il medico di
controllo deve essere munito, a cura della ASL, di un
apposito documento di
identificazione
Nell'ambito della collaborazione reciproca che deve intercorrere fra colleghi
il medico di
controllo non deve comunicare al paziente le proprie valutazioni diagnostiche
e terapeutiche in caso di diversità
di parere con il medico
curante. Eguale obbligo, alle stesse condizioni,
è posto a carico del medico
curante. E' ovvia la "ratio" della norma deontologica che vuole
evitare il manifestarsi di
contrasti fra colleghi di cui
sarebbe testimone, primo fra tutti, il soggetto sottoposto
a controllo
Il medico fiscale è comunque
legittimato a prendere contatto con il curante quando lo richieda l'interesse
della persona oppure lo renda necessario il contrasto di
pareri.
E' questa una situazione che, per vari motivi, raramente si
verifica ma occorre tenere presente che la norma deontologica
responsabilizza il medico di
controllo che non può dimenticare
che la sua funzione primaria, al di là
degli aspetti di verifica, è sempre
quella di curare e di
prestare assistenza: per cui nei casi sopra delineati è opportuno prendere
contatto con il collega medico
curante nell'interesse primario della salute del paziente. Tale interesse è
alla base anche dell'obbligo deontologico, posto a carico del medico di
controllo di intervenire e di
adottare tutte le misure del caso in situazione di urgenza
o di emergenza clinica. Si pensi
alla necessità di predisporre
un immediato ricovero quando dai
primi accertamenti del medico di
controllo ne risulti l'opportunità. E' compito, in
questo caso, del medico di
controllo quello di informare
sollecitamente il medico
curante delle iniziative adottate. Queste disposizioni
ripropongono in particolare quanto già visto nel
commento all'art. 62 laddove si tratta di
rapporti fra colleghi che si succedono nella cura di uno
stesso paziente. Si tratta di
comportamenti doverosi che danno pratica applicazione ai principi di
correttezza e di informazione
che devono improntare tutti i rapporti di
collaborazione fra colleghi.
CAPO V- RAPPORTI CON L'ORDINE PROFESSIONALE
Art. 66 Doveri di collaborazione
Il medico è
obbligato a prestare la massima collaborazione e disponibilità
nei rapporti con il proprio Ordine
professionale, tra l'altro ottemperando alle convocazioni del Presidente.
Il medico che
cambia di
residenza, trasferisce in altra provincia la sua attività o modifica la
sua condizione di esercizio
o cessa di
esercitare la professione, è tenuto a darne tempestiva comunicazione al
Consiglio provinciale dell'Ordine.
L'Ordine
provinciale, al fine di tenere
un albo aggiornato, recepisce queste modificazioni
e ne informa la
Federazione Nazionale.
Il medico è
tenuto a comunicare al Presidente dell’Ordine
eventuali infrazioni alle regole, al reciproco rispetto e alla corretta
collaborazione tra colleghi e alla salvaguardia delle
specifiche competenze che devono informare i
rapporti della professione medica con
le altre professioni sanitarie.
Nell’ambito del procedimento disciplinare
la mancata collaborazione e disponibilità
del medico
convocato dal Presidente dell’Ordine costituisce ulteriore elemento di
valutazione a fini disciplinari.
Il Presidente dell’Ordine
provinciale, nell'ambito dei suoi poteri di
vigilanza deontologica, può invitare i medici
esercenti la professione nella provincia stessa, sia in ambito pubblico che
privato, anche se iscritti ad altro Ordine, informandone
l'Ordine di appartenenza
per le eventuali conseguenti valutazioni.
Il medico
eletto negli organi istituzionali dell’Ordine deve
adempiere all’incarico con diligenza
e imparzialità nell’interesse della collettività e osservare prudenza e
riservatezza nell’espletamento dei propri compiti.
Commento:
L’art. 66 è volto a disciplinare,
in modo anche innovativo, i rapporti che devono esistere tra il medico e
l’Ordine professionale di appartenenza.
L’articolo in modo sintetico delinea un vero e proprio
"statuto" di regole
comportamentali che devono esistere tra il singolo medico e
l’Ordine provinciale. Viene in
particolare delineato il dovere del medico di
comunicare al Presidente dell’Ordine,
quale legale rappresentante dell’istituzione, le infrazioni alle regole del
reciproco rispetto oltre agli eventuali problemi eventualmente insorti con le
altre professioni sanitarie.
Risulta innovativo l’obbligo deontologico posto a
carico del medico di
rispondere all’invito di essere
sentito dal Presidente dell’Ordine
provinciale dove esercita la sua professione, anche se iscritto ad altro Ordine,
quando tale invito sia correlato a specifici compiti istituzionali. Viene sancito il correlativo obbligo del Presidente dell’Ordine che
ha convocato il medico a informarne
il Presidente dell’Ordine di
iscrizione cui spettano le eventuali, conseguenti valutazioni.
Si è inteso in sostanza "estendere" l’ambito della sfera di
competenza dell’Ordine
rispetto ai limiti sanciti dalla legge istitutiva e dal relativo regolamento di esecuzione.
L’Ordine diviene,
dunque, il necessario punto di
riferimento per il medico per
quanto riguarda sia la tenuta dell’albo, sia lo svolgimento del potere disciplinare
ma anche per eventuali, ulteriori problemi che riguardino,
comunque, l’esercizio professionale.
E’ da sottolineare, infine, l’ultimo comma che
attribuisce valore deontologico alle modalità di svolgimento
degli incarichi nell’ambito degli organi istituzionali dell’Ordine. La
norma deontologica è, quindi, in
perfetta sintonia con quella legislativa che attribuisce ai rappresentanti
degli enti pubblici l’obbligo di agire
con diligenza e imparzialità
nell’interesse della collettività, osservando la necessaria prudenza e
riservatezza nell’espletamento dei propri compiti.
titolo 5° - RAPPORTI CON I TERZI
CAPO I -
SVOLGIMENTO DELL'ATTIVITA' PROFESSIONALE
Art. 67 Modalità e forme di espletamento dell'attività professionale
Gli accordi, i
contratti e le convenzioni diretti
allo svolgimento di attività professionale in forma
singola o associata, utilizzando strutture di
società per la prestazione di
servizi, devono essere approvati dagli Ordini, se
conformi alle regole della deontologia professionale, che gli Ordini sono
tenuti a far osservare in ottemperanza agli atti di indirizzo e
coordinamento
emanati dalla Federazione, sentito il Consiglio Nazionale della stessa, ivi
compresa la notificazione dello statuto all'Ordine
competente per territorio.
Il medico non
deve partecipare a imprese industriali, commerciali o di altra
natura che ne condizionino
la dignità e
l'indipendenza
professionale.
L’attività professionale può essere svolta anche in forma associata con le modalità previste dall’atto di indirizzo
della Federazione Nazionale.
Il medico
nell'ambito di ogni
forma partecipativa o associativa dell'esercizio della professione:
- è e resta responsabile dei propri atti e delle proprie prescrizioni;
- non deve subire condizionamenti
della sua autonomia e indipendenza
professionale;
- non può accettare limiti di tempo
e di modo
della propria attività, nè forme di
remunerazione in contrasto con le vigenti norme legislative e ordinistiche e lesive della dignità e
della autonomia professionale.
Commento:
L’articolo in commento disciplina
l’esercizio dell’attività professionale puntualizzando compiti e responsabilità
del medico.
Viene confermato l’obbligo per gli iscritti di
chiedere l’approvazione dell’Ordine per
quanto riguarda gli accordi, i
contratti e le convenzioni diretti
allo svolgimento di
attività professionali in forma singola o associata.
Il vaglio dell’Ordine deve
riguardare, ovviamente, il rispetto delle regole della deontologia
professionale e degli atti di indirizzo e
coordinamento della
Federazione.
Non si può ignorare l’estrema complessità della questione con lo specifico
riferimento alla "vexata quaestio" della
legittimità delle società commerciali aventi per oggetto l’esercizio delle
attività sanitarie; ma il codice
deontologico non si occupa strettamente di questa
problematica, la tiene ben presente e rinnova quindi il
dovere del medico di
ottenere il vaglio deontologico dell’Ordine per
quanto riguarda la costituzione di associazioni professionali.
E’ da notare peraltro che l’articolo, forse in polemica con alcune prese di
posizione del mondo dell’imprenditoria,
vieta al medico la partecipazione a imprese industriali, commerciali o di altra
natura che ne condizionino
la dignità e l’indipendenza
professionale.
E’ questa del resto una polemica decisiva per il futuro stesso della
professione medica che, ad avviso
dell’Ordine professionale, non
potrà mai essere ridotta a impresa, soggetta soltanto
al meccanismo automatico dei costi-profitto.
Viene ribadita la
legittimità dell’esercizio associato della professione, chiarendo, comunque,
alcuni aspetti fondamentali che devono essere osservati per il corretto
svolgimento dell’attività professionale in forma partecipativa o associativa.
Tali indirizzi riguardano
l’assoluta necessità del mantenimento della responsabilità del medico per
quanto riguarda atti e prescrizioni e il correlativo divieto di subire
condizionamenti lesivi
dell’autonomia e indipendenza
professionali.
L'ultimo comma dell'articolo in commento si occupa dell'attività medica
prestata nell'ambito della c.d. "mutualità volontaria". E' necessario
preliminarmente osservare che l'art. 46 della legge 833/78 ha sancito la
legittimità della mutualità volontaria prevedendo, però, nel contempo il divieto
per enti, imprese ed aziende pubbliche di
contribuire sotto qualsiasi forma al finanziamento di associazioni
mutualistiche liberamente costituite aventi finalità di
erogare prestazioni integrative dell'assistenza sanitaria prevista dal SSN.
Il riconoscimento della mutualità volontaria è riconfermato anche nei D.lgs. nn. 502/92 e 517/93
attraverso la previsione di una regolamentazione tuttora non attuata dei fondi
integrativi.
Da questa norma si può evincere una sostanziale diffidenza
del legislatore dell'epoca per lo sviluppo della
mutualità volontaria integrativa vista come una forma per assicurare migliori
prestazioni sanitarie ai più abbienti o quanto meno agli appartenenti alle
categorie più forti.
La realtà ha però camminato in modo esattamente contrario: negli ultimi anni,
infatti, si è assistito ad uno sviluppo notevole, anche se abbastanza disordinato di forme di
mutualità volontaria e di assistenza sanitaria integrativa.
In questo quadro la norma deontologica si preoccupa di
garantire la correttezza del lavoro medico
prestato nell'ambito del convenzionamento con enti
assicurativi o di mutualità integrativa.
Queste forme di convenzionamento,
infatti, possono a volte essere non completamente in linea con i principi della
deontologia professionale. Il medico
interessato a stabilire questi tipi di
rapporti deve chiedere la preventiva autorizzazione del proprio Ordine che
a sua volta deve attenersi, in questo campo, alle indicazioni
fornite dalla Federazione nazionale. A questo proposito si ricorda la
deliberazione del Consiglio Nazionale del 12-13 dicembre
1997 che subordina
l’autorizzazione ordinistica al
rispetto del rapporto diretto
fra il medico e il paziente, anche
sotto l'aspetto economico, nel rispetto comunque della tariffa minima professionale.
Si stabilisce, inoltre, la predisposizione
di elenchi aperti a tutti i medici
interessati e muniti dei titoli richiesti per l'attività professionale di cui
trattasi. L'Ordine, inoltre, deve
opportunamente tenere gli elenchi degli iscritti convenzionati con ciascuna associazione mutualistica con lo scopo di
assicurare la necessaria vigilanza sull'osservanza delle norme deontologiche.
Per completezza è necessario ricordare che il recente Decreto Legislativo n.
229 del 19 giugno 1999 "Norme per la razionalizzazione del S.S.N.",
prevede una normativa innovativa in riferimento ai fondi
integrativi sanitari di cui va
riconosciuta l’importanza per quanto riguarda la realizzazione di una
rinnovata assistenza sanitaria.
In prosieguo di tempo sarà possibile verificare se finalmente il settore della
mutualità volontaria troverà una regolamentazione chiara ed esauriente che
coniughi il rispetto del diritto di scelta
del cittadino e la tutela della
professionalità del medico.
CAPO I -
SVOLGIMENTO DELL'ATTIVITA' PROFESSIONALE
Art. 68 Rapporto con altre professioni sanitarie
Il medico non
deve stabilire accordi diretti o
indiretti
con altre professioni sanitarie che svolgano attività
o effettuino iniziative di tipo
industriale o commerciale inerenti l'esercizio professionale.
Nell’interesse del cittadino il
medico deve
intrattenere buoni rapporti di
collaborazione con le altre professioni sanitarie rispettandone le competenze
professionali.
Commento:
Il divenire della normativa e
i correlativi cambiamenti della società hanno anche influenzato il legislatore
deontologico che nell’art. 68, 2° comma, stabilisce il
dovere del medico, nell’interesse del
cittadino, di
intraprendere buoni rapporti di
collaborazione con le altre professioni sanitarie nell’ambito delle rispettive
competenze professionali.
E’ facile leggere un riconoscimento della legittimità delle altre professioni
sanitarie che non sono devono essere più riconosciute in un ruolo
esclusivamente ancillare ma di cui viene riconosciuta la valenza professionale e culturale. E’
noto, infatti, che attraverso l’istituzione dei diplomi
universitari (lauree brevi) si sono venuti costituendo nuove
professionalità (logopedia,
ortottista, tecnici della riabilitazione, ecc.) che, pur non potendo invadere
l’ambito della competenza della professione medica, ne
costituiscono valido complemento per il superamento dei problemi di salute
dei pazienti.
E’ interessante a questo riguardo notare che il codice
accoglie la dizione "altre
professioni sanitarie" rispetto a quella precedentemente
usata "di categorie sanitarie o
professioni ausiliarie".
Tutto ciò premesso l'articolo in esame rappresenta un'ulteriore
specificazione dei principi della tutela di indipendenza
e della dignità professionale che
non consentono uno svilimento dell'esercizio della medicina in
senso commerciale.
Quali fattispecie pratiche da ritenere vietate ai
sensi del presente articolo possono, esemplificativamente,
essere indicati gli accordi tra medico
ortopedico e fisioterapista o
officina ortopedica - o oculista ed
ottico- volti ad influenzare la scelta dei pazienti per fini in evidente
violazione anche degli artt. 27 e 52 del codice.
La previsione che fissa il divieto
per il medico di accordi diretti o
indiretti con appartenenti ad altre
categorie sanitarie o esercenti arti ausiliarie delle professioni sanitarie ha,
infatti, come finalità, oltre che la tutela della dignità
professionale, anche quella della effettiva libertà di scelta
degli assistiti.
titolo 6° - RAPPORTI CON IL SERVIZIO SANITARIO
NAZIONALE E CON ENTI PUBBLICI E PRIVATI
CAPO I - OBBLIGHI
DEONTOLOGICI DEL MEDICO A RAPPORTO DI IMPIEGO O CONVENZIONATO
Art. 69 Medico dipendente o convenzionato
Il medico che
presta la propria opera a rapporto d'impiego o di
convenzione, nell'ambito di
strutture sanitarie pubbliche o private, è soggetto alla potestà disciplinare
dell’Ordine
anche in adempimento degli obblighi connessi al rapporto di impiego
o convenzionale.
Il medico
qualora si verifichi contrasto tra le norme
deontologiche e quelle proprie dell'ente, pubblico o privato, per cui presta la
propria attività professionale, deve chiedere l'intervento dell'Ordine,
onde siano salvaguardati i diritti
propri e dei cittadini.
In attesa della composizione della vertenza
Egli deve assicurare il servizio, salvo i casi di grave
violazione dei diritti e
dei valori umani delle persone a lui affidate e della dignità,
libertà e indipendenza
della propria attività professionale.
Commento:
Nel Titolo VI, Capo I "Obblighi deontologici del medico a
rapporto di impiego o convenzionato" , all’art. 69 si esprime il
generale principio per il quale la sussistenza di
rapporto di impiego o di
convenzione del medico non
devono sminuire l’adesione dello stesso ai valori etici fondamentali della
deontologia professionale medica
Si sottolinea il principio per cui, in caso di
contrasto tra norme deontologiche e disposizioni
dell’ente, il medico è
tenuto a ricorrere al supporto fornito dall’Ordine
professionale a salvaguardia, non
solo dell’autonomia e della dignità
della professione, ma anche e, soprattutto, dei diritti
dei cittadini.
Si precisa anche che in attesa della soluzione del
contrasto, salvo i casi di grave
violazione dei diritti e dei valori umani
delle persone e della dignità,
libertà e indipendenza della propria
attività professionale, il medico è
tenuto ad assicurare il proprio servizio.
E’ questo un articolo che tende a restituire valenza all’Ordine
professionale, nella sua veste di
garante della professione a tutela del cittadino. E’
un articolo fortemente voluto dalla categoria al fine di
restituire alla figura professionale dello stesso la caratteristica
assistenziale tipica della professione medica che
il sempre più frequente inquadramento nella pubblica amministrazione dei
sanitari tende a sminuire.
E' chiaro, infatti, che il rapporto di dipendenza
ma anche quello convenzionale presuppongono un "incardinamento" totale o quanto meno
parziale nell'ambito dell'organizzazione amministrativa dell'ente pubblico o
della struttura privata presso cui si presti la propria attività professionale.
Il codice deontologico già
all'art. 1 ha chiarito che "i principi e le regole della deontologia medica
devono essere osservate dagli iscritti all'Ordine
nell'esercizio della professione quali che siano l'ambito e lo stato giuridico in
cui viene svolta".
Questa disposizione viene ora ad
essere meglio esplicitata ribadendo l'articolo in commento il concetto della
necessità dell'osservanza delle norme deontologiche anche quando le stesse
contrastino con quelle proprie degli enti pubblici o delle strutture private
presso cui il medico
presti la propria attività.
Sono queste situazioni deprecabili che pongono il medico di fronte
alla necessità di osservare la propria
deontologia professionale anche quando questa osservanza
possa esporlo al pericolo di
violare precise disposizioni
vigenti nell'ambito lavorativo in cui presta la propria attività. Il contrasto
fra le norme deontologiche e le altre può essere
particolarmente delicata quando ci si trovi di fronte
ad una normativa prevista da una legge ordinaria
dello Stato cui sono tutti tenuti all'osservanza.
Molto più frequente nella pratica è, invece, il contrasto che può insorgere fra
"norme interne" emanate da enti pubblici,(circolari,
ordini di
servizio etc.) e precetti deontologici. In tutte queste situazioni, ovviamente,
anche in quelle più gravi, il medico è
tenuto a chiedere l'intervento del proprio Ordine
affinché possano essere salvaguardati i suoi diritti
unitamente a quelli degli assistiti. Sarà compito dell'Ordine
scegliere la strada e i mezzi più opportuni per intervenire, quando la
situazione lo richieda, a difesa
del medico ma in realtà a difesa
della deontologia professionale di cui
l'Ordine stesso deve essere il
primo geloso custode.
Le responsabilità insite nell'attività medica non permettono,
però, al professionista, durante lo svilupparsi della vertenza, di
interrompere il proprio servizio ponendo di
conseguenza in pericolo i pazienti a lui affidati. La norma deontologica,
pertanto, gli impone di
continuare a prestare il proprio servizio prevedendo solo un'eccezione nei casi
in cui si fosse di fronte
a violazioni gravi dei diritti e
dei valori umani delle persone a lui affidate e della dignità
della propria attività professionale.
Va sottolineato che il medico,
come ogni cittadino, ha anche il diritto di adire
personalmente, ove lo ritenga necessario, l'autorità giudiziaria
a prescindere dall'intervento e dall'interessamento del proprio Ordine. Non
può, infatti, non trovare applicazione, anche in questo caso, l'art. 24 della
Costituzione che sancisce il diritto di tutti di agire
in giudizio per la tutela delle
proprie situazioni soggettive.
Art. 70 Direzione sanitaria
Il medico che
svolge funzioni di direzione o di dirigenza
sanitaria nelle strutture pubbliche o private deve garantire, nell’espletamento
della sua attività, il rispetto delle norme del Codice di
Deontologia Medica e la difesa
dell’autonomia e della dignità professionale all’interno della struttura in cui
opera.
Egli ha il dovere di
collaborare con l’Ordine
professionale, competente per territorio, nei compiti di
vigilanza sulla collegialità nei rapporti con e tra medici per
la correttezza delle prestazioni professionali nell’interesse dei cittadini.
Egli, altresì, deve vigilare sulla correttezza del materiale informativo
attinente alla organizzazione e alle prestazioni
erogate dalla struttura.
Commento:
L’art. 70, fortemente voluto dalla Commissione che ha aggiornato il codice
deontologico, ha valenza di forte
richiamo nei confronti di medici
chiamati a svolgere funzioni di direzione
e di dirigenza
sanitaria nelle strutture pubbliche e private.
E’ un articolo che puntualizza che il medico,
inserito nel Servizio sanitario, pur perseguendo le finalità che il SSN si prefigge, non può non rispettare le norme
comportamentali stabilite dal codice di
deontologia medica in difesa
della indipendenza della
professione.
Il direttore sanitario deve
improntare la propria attività al pieno rispetto dei principi contenuti nel
presente codice e deve vigilare sulla
correttezza e collegialità dei rapporti tra i medici che
nel servizio sanitario operano.
Si ribadisce il principio già espresso nell’articolo precedente,
ovvero che l’inquadramento del professionista medico
nell’ambito della pubblica amministrazione non deve significare snaturamento
degli elementi etico-comportamentali che connotano la
professione.
E’ un articolo con caratteristiche di attualità anche alla luce del mutato rapporto tra medico e
cittadino. Riconoscere al direttore
sanitario una specifica responsabilizzazione in difesa
dell’autonomia e della dignità
professionali del personale medico,
sollecitandolo a un rapporto collaborativo con l’Ordine
professionale, ha la precisa finalità di
migliorare, per quanto possibile, il rapporto delle strutture pubbliche e
private assistenziali con l’utenza.
Art. 71 Collegialità
Nella salvaguardia delle
attribuzioni, funzioni e competenze, i rapporti tra i medici dipendenti
e/o convenzionati, operanti in strutture pubbliche o private devono
ispirarsi ai principi del reciproco rispetto, di
collegialità e di collaborazione.
Commento:
I principi di reciproco rispetto e di
collegialità, come abbiamo già visto nel commento a diversi
precedenti articoli, (si pensi agli articoli 60 e 62 dedicati ai
rapporti fra medico curante e consulente
o fra medico curante e medici dei
reparti ospedalieri) costituiscono la base delle relazioni che devono
intercorrere fra colleghi in qualsiasi ambito lavorativo e non.
A maggior ragione tali principi devono essere punto di
riferimento dei rapporti fra colleghi dipendenti
o convenzionati operanti in una medesima struttura.
Nell'ambito lavorativo i rapporti fra i colleghi devono, ovviamente, essere
inquadrati anche alla luce delle funzioni e competenze che ciascuno è chiamato
a svolgere.
Quello che la norma deontologica vuol significare è che i rapporti fra i medici
devono essere sempre ispirati al rispetto reciproco e ai principi di
collegialità che favoriscono, oltre tutto,
l'assunzione più consapevole e meditata
delle necessarie decisioni operative.
Art. 72 Eccesso di prestazioni
Il medico dipendente
o convenzionato deve esigere da parte della struttura in cui opera ogni
garanzia affinchè le modalità
del suo impegno non incidano negativamente sulla qualità e l’equità delle
prestazioni, nonché sul rispetto delle norme deontologiche.
Il medico non
deve assumere impegni professionali che comportino
eccessi di
prestazioni tali da pregiudicare la
qualità della sua opera professionale e la sicurezza del malato.
Commento:
E’ questo un articolo di indubbia valenza etico-deontologica
in quanto sottolinea, non soltanto l’impegno che il medico deve
profondere nell’esercizio della propria attività professionale, ma soprattutto
il livello qualitativo che lo stesso deve mantenere. E’ evidente che
l’applicabilità di questo articolo si scontra, frequentemente, con le condizioni
strutturali e ambientali spesso indipendenti
dalla volontà del professionista.
Il medico all’atto
dell’assunzione dell’incarico deve verificare che le condizioni
lavorative siano compatibili con il decoro dell’esercizio professionale.
Questo non lo esime, comunque, dal porre in essere
ogni possibile tentativo per far si che la prestazione effettuata a beneficio
del malato non rischi di recare
pregiudizi all’efficacia della
prestazione stessa.
Come più volte osservato l'attività professionale medica, che
in passato era considerata di
carattere squisitamente libero-professionale, sta sempre più perdendo questa
connotazione in conseguenza del continuo "allargarsi" dell'attività
in regime di dipendenza
e di convenzionamento
con il SSN.
A prescindere se tali rapporti di lavoro
si svolgano nell'ambito pubblico o in quello privato, è fondamentale per il medico
esigere che la sua opera si svolga in condizioni
tali da poter assicurare ai pazienti l'assistenza necessaria.
Può accadere che, per vari motivi, spesso legati a fatti contingenti, un medico si
trovi a far fronte a un impegno lavorativo eccessivo a
livello temporale. Si pensi, ad esempio, a un medico
ospedaliero in servizio di guardia che
non venga sostituito e che si veda costretto a prestare un ulteriore turno di
lavoro. A parte gli esempi che si possano fare è
evidente che nessuna attività professionale, tanto meno quella medica, può
essere svolta in una situazione di disagio
operativo che ne comprometta la qualità.
E' evidente che altri fattori possono "disturbare"
o addirittura rendere precaria
la prestazione professionale. Si pensi a carenze
organizzative gravi per cui in una struttura ospedaliera, ad esempio, non
vengano riparati i macchinari necessari per la quotidiana
assistenza sanitaria; oppure a carenze di spazio
a disposizione che non permettano
ai medici di
operare correttamente nel rispetto della dignità
del malato. Accade di
frequente che, per carenze di
spazio, nei reparti ospedalieri avvengano ricoveri in ambienti inidonei (i
famosi posti-letto situati in corridoio).
Sempre a titolo esemplificativo si può far riferimento alle strutture di pronto
soccorso che spesso non sono adeguate alle necessità.
Gli esempi di carenze
organizzative o strutturali che possono porre in pericolo la qualità dell'atto
medico, come abbiamo visto, possono
essere molteplici. Bisogna evidenziare, peraltro, che spesso le vittime di questo
stato di cose sono, oltre che i
pazienti, gli stessi medici.
Troppo spesso infatti i mass media
identificano nella figura del medico il
"capro espiatorio" di una
situazione che, invece, non gli dovrebbe essere assolutamente imputata. Non si
vuole, ovviamente, sostenere che non possano esistere anche responsabilità dei
medici per le carenze
dell'assistenza sanitaria ma si intende solo evidenziare come spesso il medico sia
la prima vittima delle carenze amministrative e burocratiche che finiscono
oltre tutto con il porlo in cattiva luce nei confronti dei suoi pazienti.
Per tutte queste ragioni la norma in commento del codice
deontologico pone l'obbligo a carico del medico di
esigere dai responsabili della struttura presso cui
presta il proprio servizio che vangano poste in essere tutte le condizioni
affinché la sua prestazione possa essere di
livello accettabile alle necessità assistenziali.
La norma deontologica si preoccupa, in particolare modo, della necessità che le
carenze organizzative non determinino l’infrangersi
del rapporto fiduciario che è alla base della corretta relazione con i cittadini.
Art. 73 Conflitto di interessi
Il medico dipendente
o convenzionato con le strutture pubbliche e private non può in alcun modo
adottare comportamenti che possano favorire direttamente
o indirettamente
la propria attività libero-professionale.
Commento:
Il tema trattato in questo articolo, che nel codice
precedente non aveva una sua autonomia, rinvia a una regola di
correttezza professionale che dovrebbe essere ovvia, soprattutto alla luce,
oggi, della regolamentazione dell’attività libero professionale intramoenia.
Gli episodi, comunque,
spesso enfatizzati da una stampa pronta a cogliere soltanto gli aspetti
negativi della professione medica,
hanno convinto la Commissione dell’opportunità di
evitare comportamenti, da parte del medico, che
potrebbero favorire indebitamente la propria attività libero professionale.
In tal caso si configurerebbe una grave violazione del principio di
correttezza nei confronti del paziente di cui verrebbe gravemente violata la libertà di scelta
del medico e nei confronti anche
dei colleghi che si troverebbero di fronte
ad una attività di
illecita concorrenza.
La deontologia professionale non può che condannare comportamenti mercantilistici che avviliscano la
figura e il ruolo del medico
nella società. L'esercizio della medicina,
infatti, benché abbia anche connotazioni economiche non può
mai essere inquadrato in una logica di puro
profitto.
CAPO II - MEDICINA DELLO SPORT
Art. 74 Accertamento della idoneità
fisica
La valutazione della idoneità alla pratica degli sport deve essere ispirata
a esclusivi criteri di tutela
della salute e della integrità fisica e psichica del soggetto.
Il medico deve
esprimere il relativo giudizio con
obiettività e chiarezza, in base alle conoscenze scientifiche più recenti e
previa adeguata informazione
al soggetto sugli eventuali rischi che la specifica
attività sportiva può comportare.
Commento:
Il capo II del Tit. VI del nuovo codice di
deontologia medica, dedicato
alla medicina dello sport, assume
una particolare pregnanza in relazione alle polemiche
che hanno attraversato il mondo dello sport interessando, peraltro, qualunque
settore dell’opinione pubblica per quanto riguarda il valore morale ed
educativo dello sport e la necessità di
tutelare la salute pubblica da interventi medici e farmacologici lesivi della salute stessa.
Per quanto riguarda l’art. 74, che si riferisce al compito del medico di
accertare e di certificare l’idoneità
fisica allo sport, è opportuno sottolineare l’obbligo
innovativo posto a carico del medico di informare
in modo adeguato il soggetto sugli eventuali rischi che la specifica attività
sportiva può comportare.
In precedenza, l’attenzione del legislatore deontologico si era soffermata,
esclusivamente, sull’obbligo di obiettività e chiarezza dell’accertamento nell’ottica
della tutela della salute e della integrità psichica e fisica del soggetto.
Questi obblighi restano pienamente confermati, ma ad essi
si aggiunge l’ulteriore compito dell’adeguata informazione.
L'importanza crescente dello "sport" nella società moderna diviene
sempre più palese anche se sotto questa generica accezione si possono ricondurre fenomeni e attività sostanzialmente diversi.
Sono individuate, infatti, tre
aree riconducibili tutte nell'ambito dell'attività sportiva: sport professionistico,
sport agonistico e sport non agonistico. E' chiaro che, per ciascuno di questi
tre ambiti, diversi per intensità ed
efficacia sono i controlli sanitari.
In rapida sintesi possiamo dire che,
per quanto riguarda la tutela sanitaria dell'attività sportiva non agonistica,
le disposizioni da applicare
sono quelle contenute nel decreto del Ministro della Sanità del
28 febbraio 1983. L'art. 1 del citato decreto prevede che devono essere
sottoposti a controllo sanitario per la pratica di attività
sportive non agonistiche: gli alunni che svolgono attività fisico sportive
organizzate dalla scuola, coloro che svolgono attività sportive organizzate dal
Coni o da società affiliate alle Federazioni sportive nazionali che però non
siano considerati atleti agonisti ai sensi del D.M. 18 febbraio 1982, coloro
che partecipano ai giochi della gioventù.
Le disposizioni per la tutela
sanitaria dell'attività sportiva agonistica sono contenute nel già citato D.M.
18 febbraio 1982, integrato con il successivo D.M. 28 febbraio 1983. Tali disposizioni,
in buona sostanza, individuano
i criteri che disciplinano i controlli
sanitari di idoneità alle diverse
attività sportive agonistiche. La normativa affida l'espletamento dei controlli
sanitari relativi all'idoneità alla pratica sportiva agonistica alla Federazione medico sportiva italiana.
Per quanto concerne l'attività sportiva professionistica
occorre tenere presente la legge 23 marzo 1981, n. 91, che all'art. 2 riconosce
lo "status" di
sportivo professionista agli atleti, agli allenatori ai direttori
tecnico sportivi e ai preparatori atletici "che esercitano l'attività
sportiva a titolo oneroso con carattere di
continuità nell'ambito delle discipline
regolamentate dal Coni".
Le norme delle Federazioni sportive nazionali secondo l'art. 7 della legge
predetta devono prevedere l'istituzione di una
scheda sanitaria per ciascun sportivo professionista da aggiornare con periodicità
almeno semestrale. Esistono poi normative e regole particolari concernenti la
tutela sanitaria dei praticanti le singole attività
sportive. Ad esempio il D.M. 28 settembre 1982 stabilisce norme per la tutela
sanitaria dei giocatori di
calcio. Questo quadro normativo fa comprendere quanto importante e diversificato sia il
compito del medico nel campo degli
accertamenti relativi all'idoneità alle pratiche sportive. La norma
deontologica in commento richiama il medico alla
necessità, in questo come in tutti gli altri settori della sua attività, di
ispirare la sua opera solo a rigidi
criteri della tutela della salute dell'interessato.
L'attività sportiva, infatti, anche se apporta, nella sua pratica corretta, un
indubbio beneficio alla salute psicofisica di chi la
svolge, può invece, se praticata in situazione anormale, divenire estremamente pericolosa per l'integrità dell'individuo.
Nelle certificazioni medico
sportive devono sempre essere tenuti presente i criteri dell'obiettività e
della chiarezza. Nella redazione dei certificati il medico deve
dichiarare soltanto circostanze e
fatti obiettivi che devono, inoltre, essere dal medico
personalmente constatati.
Il requisito della chiarezza è nel campo delle certificazioni medico
sportive particolarmente importante, considerando che la persona viene ad
essere sottoposta a successivi controlli e che la redazione di un
certificato di "inidoneità"
può dar luogo ad un ricorso dell'interessato.
Si ricorda che, anche se gli obblighi deontologici costituiscono già di per sè un sufficiente motivo di
stretta osservanza della correttezza professionale in questo ambito,
esistono anche le disposizioni
del codice penale che possono
essere applicate (art. 481: "falsità ideologica commessa da persona
esercente un servizio di
pubblica necessità"; art. 480: "falsità ideologica commessa dal
pubblico ufficiale"; art. 493: "falsità connesse da pubblici
impiegati incaricati di un
servizio pubblico").
Art. 75 Idoneità - Valutazione medica
Il medico ha
l’obbligo, in qualsiasi circostanza, di
valutare se un soggetto può intraprendere o proseguire la preparazione atletica
e la prestazione agonistica.
Il medico deve
esigere che la sua valutazione sia accolta, in particolare negli sport che
possano comportare danni all’integrità psico-fisica degli atleti, denunciandone
il mancato accoglimento alle autorità competenti e all'Ordine professionale.
Commento:
Questo articolo richiama il medico alla
correttezza di comportamenti in ogni
fase dell’attività sportiva.
In particolare impone al medico di
evitare qualsiasi atteggiamento di inerzia soprattutto riguardo a sport che possono
frequentemente comportare danni all’idoneità psico-fisica degli atleti.
L’attuale formulazione dell’articolo rafforza il dovere del medico di intervento
(il caso tipico è quello del medico di
bordo-ring durante gli incontri di boxe):
E’ prevista, infatti, la denuncia alle autorità competenti e all’Ordine
professionale nel caso in cui la decisione del medico di
interruzione dell’attività sportiva incontri difficoltà
operative.
Lo scopo della norma è, infatti, quello di difendere,
nell'interesse primario della tutela della salute pubblica, le attribuzioni del
medico nel campo della medicina
sportiva.
I regolamenti delle varie Federazioni sportive nazionali e internazionali
devono prevedere disposizioni
che permettano l'intervento dei medici per
impedire ad un soggetto, in
condizioni psicofisiche
precarie, di intraprendere o
proseguire gli allenamenti e/o le prestazioni agonistiche. La norma
deontologica, peraltro, costituisce principalmente un richiamo alla coscienza
professionale del medico che
non deve mai dimenticare che le sue
responsabilità sono quelle di difendere
la salute dei suoi assistiti.
Si pensi a questo riguardo alla necessità di non
farsi colpevolmente condizionare
dai rilevanti interessi economici connessi alla pratica sportiva
professionistica.
Il medico deve potere e sapere
"fermare", se le condizioni
soggettive e oggettive lo impongano, anche un atleta
famoso alla vigilia o durante un importante impegno agonistico. Ancora maggiore
spazio se possibile, deve essere riconosciuto al medico
nella tutela, senza condizione,
degli "atleti in erba" cioè dei soggetti in
età evolutiva.
Art. 76 Doping
Il medico non
deve consigliare, prescrivere o somministrare trattamenti farmacologici
o di altra natura diretti
ad alterare le prestazioni di un
atleta, in particolare qualora tali interventi agiscano direttamente
o indirettamente
modificando
il naturale equilibrio psico-fisico del soggetto.
Commento:
Per quanto riguarda il problema, particolarmente discusso,
del rapporto tra medico e
trattamento doping l’articolo in commento ha, in modo innovativo, chiarito il divieto
per il medico di
consigliare, prescrivere e somministrare trattamenti farmacologici
o di altra natura diretti
ad alterare la prestazione dell’atleta.
E’ necessario porre l’accento sull’innovativo divieto di
somministrare, considerando che alcune pratiche prevedono la necessità
dell’intervento medico. Si
pensi ad esempio alla pratica dell’autoemotrasfusione,
in un primo tempo tollerata e successivamente proibita
dalla legislazione sportiva.
L’articolo vieta al medico di agire direttamente
e indirettamente in questo
settore, considerando il ricorso alle pratiche di doping
sempre pericoloso per la salute e causa di
sensibili e a volte irreversibili modificazioni
dell’equilibrio psico-fisico.
Il problema dell'utilizzo delle sostanze "doping" nello sport è, come
noto, al centro di un dibattito
particolarmente approfondito che
interessa e preoccupa l'intera opinione pubblica. Tale questione, anche se
concerne principalmente l'attività sportiva professionistica o comunque svolta ad alto livello, riguarda anche il mondo
dello sport "dilettantistico"
ed ha risvolti anche di
carattere sociale. Si pensi a questo riguardo alla diffusione
di farmaci e prodotti
"anabolizzanti", fra i frequentatori di
palestre o istituti in cui si pratica il c.d. "culturismo". Siamo di
fronte, quindi, anche a soggetti che
non ricavano alcun utile economico dalla propria pratica sportiva e che comunque sono inclini a utilizzare trattamenti farmacologici gravemente dannosi.
Al di là delle definizioni e degli elenchi che difficilmente
possono risultare esaustivi, considerando il rapido progredire
delle conoscenze scientifiche, il codice
deontologico obbliga il medico ad
astenersi dall'utilizzare trattamenti farmacologici o
di altra natura che, per
influenzare artificialmente le prestazioni di un
atleta, agiscono modificando
il naturale equilibrio psicofisico del soggetto.
Il medico deve sì mirare ad
assicurare il miglior livello possibile di cure
per la salute dell'atleta considerando gli sforzi che richiede
la sua attività, ma deve opporsi all'uso di metodi di cura
volti unicamente al superamento del limite della prestazione disponibile
nell'atleta per la complessione psico-fisica in quel tempo.
Occorre sempre considerare che anche i rischi cui l'individuo
si espone non sono mai proporzionali agli obiettivi da raggiungere. Qualsiasi
consenso fornito dall'interessato non può mai esimere il medico
dalle sue responsabilità, considerando che è in discussione
la salute dell'individuo
che, come è noto, non è un "bene disponibile".
Anche in questo settore trova applicazione il principio dell'informativa
tra colleghi per cui il terzo comma dell'articolo in
commento prevede l'obbligo del medico
sportivo di comunicare al medico
curante le terapie (anche quando ovviamente non costituiscono doping) cui si
sta sottoponendo l'atleta. E' opportuno evidenziare che la comunicazione deve
sussistere anche all'inverso, cioè tra medico
curante e medico dello sport. Si pensi infatti al caso frequente di atleti
che assumono farmaci "proibiti" per gli sportivi ma assolutamente
leciti per i "normali cittadini".
La mancata comunicazione al medico
sportivo può far incorrere l'atleta in provvedimenti
punitivi non meritati.
Per questo il ruolo dell'Ordine,
attraverso il suo potere disciplinare,
in sintonia con il Coni e le varie Federazioni
sportive può risultare decisivo per interventi non solo repressivi, atti a
combattere il doping. Da qui discende
la necessità della collaborazione di medici che
devono preoccuparsi di segnalare
al proprio Ordine qualsiasi
comportamento scorretto (prescrizione o suggerimento di assunzione
di farmaci, integratori
alimentari o sostanze da considerarsi dopanti) posto
in essere da medici o da non medici. E'
chiaro che il potere disciplinare
dell'Ordine potrà applicarsi solo
ai primi ma nulla vieta all'Ordine di
chiedere l'intervento giudiziario
sui secondi, specialmente quando sia configuarabile il reato di
esercizio abusivo della professione.
CAPO III - TUTELA DELLA SALUTE COLLETTIVA
Art. 77 Attività nell'interesse della collettività
Il medico è
tenuto a partecipare all'attività e ai programmi di tutela
della salute nell'interesse della collettività.
Commento:
Con questo articolo, reso più sintetico ma
ugualmente incisivo, si sottolinea il ruolo sociale che il medico deve
rivestire nella società. La figura professionale del medico è
quindi una costante ineludibile per il raggiungimento delle
finalità sociali e assistenziali dello Stato.
Si pensi al ruolo centrale, indubbiamente benemerito, che sta svolgendo la
categoria medica per assicurare
risultati agli interventi assistenziali nel recente passato e anche attualmente
nei teatri di guerra delle
repubbliche slave.
Art. 78 Trattamento sanitario obbligatorio e denunce
obbligatorie
Il medico deve
svolgere i compiti assegnatigli dalla legge in tema di
trattamenti sanitari obbligatori e deve curare con la massima diligenza
e tempestività la informativa
alle autorità sanitarie e ad altre autorità nei modi, nei
tempi e con le procedure stabilite dalla legge, ivi compresa, quando prevista,
la tutela dell'anonimato.
Commento:
Si tratta di una serie di
fondamentali attività di interesse generale e d’indole medico-legale che
ciascun medico è tenuto a svolgere
nell’interesse della autorità sanitaria e giudiziaria,
ai fini della tutela della pubblica salute e della amministrazione della
Giustizia.
Nella precedente formulazione del codice di
deontologia medica, tali obblighi erano
specificati almeno nella enunciazione generale; ma il variare incessante delle
norme e la loro sempre più precisa scansione in termini di modi, di tempi
e di fini della loro esecuzione
sono sembrate condizioni di tanto
frastagliata e complessa formulazione da non poter essere esposte in dettaglio
e tanto meno sommariamente richiamate nell’ambito di una
norma deontologica, di
spessore etico, diretta a
fissare principi generali e divieti
comportamentali e ragioni di doverosità anche di
valenza pubblicistica.
Le modalità attuative dei
trattamenti sanitari obbligatori (malattie mentali e infettive, vaccinazioni),
le caratteristiche delle denunce alla autorità giudiziaria
(referto e rapporto), alla autorità amministrativa (cause di morte,
ecc.), alla autorità sanitaria (malattie infettive e diffusive,
ecc.), alle assicurazioni sociali (infortuni e
malattie professionali) sono per di più
contenute in una varia e indaginosa serie di fonti
(testo unico delle leggi sanitarie, regolamento di
polizia mortuaria, codice
penale, legge di riforma sanitaria,
testi normativi speciali) che fanno parte della irrinunciabile formazione medico
legale di ciascun medico, sia
egli pubblico ufficiale, incaricato di un
pubblico servizio ovvero esercente la libera professione e sono, comunque,
costantemente aggiornate nei fondamentali testi della disciplina
e nella guida all’esercizio professionale.
Restano, peraltro, essenziali agli effetti della precisa ottemperanza medica, ai
molteplici impegni di medicina
pubblica, d’indole intelligentemente informativa,
la consapevolezza del significato non meramente formale degli atti e la
sensibilità con la quale armonizzare, nel rispetto delle norme, esigenze
pubbliche e diritti della persona,
bene interpretando e applicando le garanzie previste sulle norme stesse a difesa
dei diritti di
libertà (referto) e di riservatezza
(denunce di malattie infettive),
che rispettivamente si spingono sino a esonerare il medico del
referto ove la persona assistita ne fosse esposta a procedimento
penale e a consentire (come per l’AIDS) la tutela dell’anonimato.
Art. 79 Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza da sostanze da abuso
L’impegno professionale del medico
nella prevenzione, nella cura e nel recupero clinico e reinserimento sociale
del dipendente
da sostanze da abuso deve, nel rispetto dei diritti
della persona e senza pregiudizi, concretizzarsi nell’aiuto tecnico e umano, sempre
finalizzato al superamento della situazione di dipendenza,
in collaborazione con le famiglie e le altre organizzazioni sanitarie e sociali
pubbliche e private che si occupano di questo
grave disagio.
Commento:
Anche in rapporto all’angoscioso problema del dilagare
delle tossicodipendenze è stata scelta
la via della sollecitazione a un impegno professionale
di indole essenzialmente ma non
solo tecnicamente sanitaria, connotato peraltro da forte e appassionata
tensione solidaristica e da chiara volontà collaborativa a una difesa individuale
e sociale che deve esprimersi soprattutto con la forza dell’informazione,
della partecipazione, della responsabilizzazione, a cui ciascun medico deve
farsi fondamentale interprete e attivo promotore.
D’altronde, questo diverso
modo di intendere il ruolo del
medico nella drammatica vicenda del
consumo delle droghe d’abuso, fortemente lesivo della
salute e, talvolta, dei rapporti nelle famiglie e nella società, corrisponde
all’attuale silenzio legislativo post-referendario, che nel superamento dei
precedenti e alternativi orientamenti di
durezza sanzionatoria o di pervasione sanitaria, non può non essere colmato se non da
una attiva e collaborante presenza del medico e
della struttura socio sanitaria, da far valere nel rispetto di diritti
alla libertà e alla privacy, ma anche con la sollecita premura degli interventi
di prevenzione, di informazione,
di indirizzo
verso possibili soluzioni di
affrancamento dalla dipendenza.
DISPOSIZIONE FINALE
Disposizione finale
Gli Ordini
provinciali dei Medici
Chirurghi e degli Odontoiatri sono tenuti a inviare ai
singoli iscritti all'Albo il Codice di
Deontologia Medica e a
tenere periodicamente
corsi di
aggiornamento e di
approfondimento.
Il medico e
l'odontoiatra devono prestare il giuramento professionale.
Commento:
Costituisce una vera e propria innovazione l’inserimento nel codice di
deontologia medica di una disposizione
finale, volta a sancire l’obbligo per gli Ordini
provinciali di portare a conoscenza
degli iscritti il codice di
deontologia medica e a svolgere periodicamente
corsi di aggiornamento e approfondimento
delle tematiche deontologiche.
Si è voluto con energia affermare che lo studio della
deontologia non deve rimanere "territorio per gli addetti al lavoro",
ma deve essere materia viva e conosciuta per tutti gli esercenti
la professione medica e
odontoiatrica.
Le regole della deontologia, lungi dall’essere un approfondimento
nobile ma lontano dalla realtà quotidiana,
devono diventare esperienza di vita
per il medico e punto di
riferimento per superare le indubbie difficoltà
che la professione comporta.
A questo riguardo nella disposizione
finale viene anche sancito l’obbligo per il medico e
l’odontoiatra neo-iscritto di
prestare il giuramento professionale. Si è voluto, come già detto, riaffermare
l’immanenza delle norme deontologiche nella professione, non solo
come esperienza culturale ma come guida nell’esercizio quotidiano
della pratica professionale.